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Mario Rapisardi, spirito titanico e ribelle

Argomento: Letteratura

di Donatella Pezzino
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Pubblicato il 26/03/2025 15:24:13

    

 

Considerare oggi Mario Rapisardi (1844-1912) un emulo catanese di Giacomo Leopardi appare quanto meno riduttivo. Indubbiamente il poeta si forma nella stessa temperie culturale e vive la stessa tormentata simbiosi con la sua opera, che spesso risente (come nei versi delle Ricordanze del 1872) della genuina ammirazione per il modello leopardiano. 

 

Quando ne le tacenti 

Rigide notti un timoroso affetto, 

Come a trepida lampa aura che fugge 

Ad agitar ti vien l’anima in petto, 

E tutta paurosa ne le custodi coltrici ti stringi, 

E al vigile pensier schermo non trovi, 

Io sonno esser vorrei: 

Come farfalla in giglio 

Io l’ala poserei 

Sovra il tuo roseo ciglio. 

 

È altresì vero che,inquadrando la complessa personalità del Rapisardi entro canoni di espressione completamente nuovi, l’influenza del positivismo porta a maturazione un processo formativo che ha il suo punto d’origine nel pessimismo cosmico e nel motivo dell’infelicità umana, cui si viene ad innestare successivamente una fiducia sconfinata nel potere rigenerativo delle arti e delle scienze.  

 

Rapisardi nasce e soffre insieme con i suoi personaggi: romantico e ombroso, è spesso un mistero per i suoi contemporanei con i quali rimangono famose le accesissime polemiche. Ancora adolescente, la lettura appassionata di Alfieri, Monti, Foscolo e Leopardi instilla in lui quella vena di titanismo sviluppatasi successivamente fino a plasmare il suo spirito in modo significativo; a ciò si aggiunge una sensibilità irrequieta e nervosa che l’artista riversa nello studio delle lettere, della pittura e della musica, e che viene esasperata dai tumultuosi avvenimenti culminati nel 1860 con l’unificazione della penisola.  

 

Rapisardi è un giovane molto permeabile nei confronti della congiuntura storica, come pure verso tutti gli ideali cavallereschi ed eroici: con l’animo infiammato da sincero zelo patriottico, compone in quegli anni un Inno di guerra agl’ italiani e l’incompiuto poemetto Dione, nel quale esalta le battaglie di Solferino, Palestro e Magenta. Insofferente agli studi di giurisprudenza che il padre, agiato procuratore legale, insiste nel fargli intraprendere, si dedica presto ai classici greci e latini. Le correnti filosofiche di matrice positivistica ne indirizzano però non soltanto l’attività di traduttore e di filologo, ma anche quella, parallela, di poeta e letterato.  Il connubio arte-scienza si concretizza allora nel suo primo, importante poema, La Palingenesi (1868), che in 10 canti polimetri condanna la corruzione del clero e, auspicando un ritorno alla purezza originaria del cristianesimo dei primi secoli, sostiene l’azione moralizzatrice di Martin Lutero e una radicale riforma religiosa pacificatrice del mondo. Non stupisce che il “Vate Etneo si sia attirato presto le antipatie delle gerarchie ecclesiastiche: per il suo secondo poema, Lucifero(1877), pare che l’allora arcivescovo di Catania abbia ordinato addirittura un autodafè 

 

Ispirato ai componimenti di Parny e di Milton, Lucifero, in 15 canti polimetri, difetta di una certa coerenza d’insieme e mostra a volte una farraginosità che mal si accorda con quelle descrizioni d’effetto e quelle celebrazioni memorabili che valgono  al suo autore il plauso di Garibaldi e il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia (e lui era uno schietto repubblicano!), nonché la nomina a professore ordinario di Letteratura Italiana e Latina da parte delministro della Pubblica Istruzione Francesco de Sanctis. Il poema, che resta l’espressione più significativa della poesia italiana d’indirizzo positivista, suscita entusiasmi per i vibranti sentimenti d’amor patrio (nel XI canto vengono esaltati in toni aulici le guerre d’indipendenza e l’ossario di Solferino) ma attira anche grosse inimicizie, la più famosa fra le quali quella del Carducci.  Accade infatti a questi di riconoscersi nel “plebeo tribuno e idrofobo cantor, vate di lupi” descritto nel XI canto: 

 

testa irsuta, ampie spalle, ibrida e tozza 

persona, in canin ceffo occhio porcino, 

bocca che sente di fiele e di vino 

 

e immediata è la sua reazione. Nonostante Rapisardi lo rassicuri più volte di non aver avuto intenzione di alludere a lui, Carducci gli diventa nemico irriducibile e lo bolla più volte con epiteti offensivi quali arcade cattivo soggetto di Catania vil catanese. È vero che questo non rappresenta un episodio isolato nella vita e nella carriera del Vate: il gusto tipicamente catanese per la caricatura e l’ironia sferzante, unito ad un carattere naturalmente ribelle e misantropo, è all’origine di una miriade di polemiche che oppongono il Nostro a molti suoi contemporanei (Aleardi, De Gubernatis, Capuana, Stecchetti, solo per citarne alcuni). 

 

Rapisardi, del resto, non ha mai esitazioni ad offrire il petto agli altrui strali e ad ergersi contro tutto e tutti. Controverso è anche il suo rapporto con la religione, complice forse anche il processo di secolarizzazione che investe la società del tempo; il Lucifero, anzi, scaturisce proprio da una crisi di ateismo, che egli riversa in quasi 10.000 versi d’ispirazione montiana. Lucifero è l’eroe che sale sulla Terra per incarnarsi, dar salute all’uomo e morte a Dio; ama Ebe, passa da un paese all’altro e da un’epoca all’altra: 

 

Dio tacea da gran tempo.Ai consueti  

Balli moveano in ciel gli astri, e con dura 

Infallibile norma albe ed occasi 

Il monotono sol dava a la terra. 

 

Questo l’esordio di un’opera che, sebbene traboccante di sincera passione, viene definito un caratteristico esempio d’intemperanza letteraria, assai più che la Palingenesi. 

Negli anni Ottanta Rapisardi, imbevuto del socialismo emergente, pubblica la Giustizia (1883) e il Giobbe (1884) lungo poema che, leopardianamente, canta il cammino dell’umanità infelice amalgamando naturalismo e pessimismo cosmico. 

 

Nelle Poesie Religiose (1887) la fede positivistica si fa religione: ed è il Rapisardi più maturo, che supera incongruenze stilistiche e affastellata retorica. In 37 componimenti dalla forma ben curata, il Vate riversa tutti i moti del suo animo in una struggente melodia poetica. Ma è una parentesi e nell’Atlantide (1894), suo ultimo poema, egli torna a fustigare la società italiana inetta e lasciva, additando soprattutto nella borghesia i principali germi della corruzione. Di contro, canta il potere rigenerativo che la scienza ha sempre avuto in tutte le epoche, soffermandosi sulle figure di Newton, Darwin, Marx.  

 

Negli ultimi anni, il poeta si chiude in un silenzio orgoglioso e superbo, indifferente agli onori tributatigli dai concittadini e alle critiche di studiosi come il Croce, continuando però privatamente a comporre feroci epigrammi contro gran parte dei letterati.  

 

Muore nel 1912 a Catania: i suoi funerali sono grandiosi, la città tiene il lutto per tre giorni. Le inimicizie che si era procurato nelle file del clero, però, ne vietano la sepoltura e la sua salma rimane per oltre dieci anni in un magazzino del cimitero comunale. Possiamo immaginarlo superbo e sprezzante anche di fronte a tale ignominia, ma certamente non di fronte all’oblio cui and incontro durante il fascismo. 

 

Dopo la Liberazione, il suo nome riemerge grazie agli studi di Asor Rosa e Concetto Marchesi. Da alcuni anni, la sua statura letteraria è oggetto di un’appassionata riscoperta attraverso la ripubblicazione delle sue opere in formato digitale. 

 

Donatella Pezzino

 

Fonti: 

 

  • Giuseppe Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Cappelli, 1954. 

  • Mario Rapisardi, Le Ricordanze, Pisa, 1872. 

  • Mario Rapisardi, Lucifero, Milano, 1877. 

  • Wikipedia. 

 

 

 


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