Pubblicato il 23/10/2023 17:41:48
È sempre un'emozione, un piacere affondare nel dettato poetico di un'isola, la Sardegna, oltre che unica per malia delle sue suggestioni anche per la diversità linguistica che più delle altre regioni la va a contraddistinguere nel nostro paese. Come nel caso del tabarchino, varietà della lingua ligure ora parlata nelle isole dell'arcipelago del Sulcis, San Pietro e Sant'Antioco (rispettivamente nei comuni di Carloforte e Calasetta) ed originariamente secondo storia in Spagna nell'isola di Nuova Tabarca vicino ad Alicante e, originariamente a Tabarca, nell'odierna Tunisia da cui appunto prende nome (alcuni discendenti dei coloni che lì si trasferirono nel sedicesimo secolo ai tempi di Carlo Forte nel ritorno finirono col fermarsi poi a Carloforte). Lingua ovviamente parlata anche da chi in altre zone dell'isola, e a Genova stessa, ne ha in qualche modo mantenuto l'uso. È questo il caso di Mariatina Battistina Biggio che vive a Cagliari, autrice di rilievo, bilingue, che nel tabarchino di Calasetta si distingue per l'alta spiritualità delle sue interrogazioni confluite poi in due libri, Na fia 'aiga (Un filo d'alga) del 2007 e Banscigu (Altalena) del 2011 con testi più volte messi in musica, oltre che meritevoli di riconoscimenti importanti quali il "Logudoro". Un senso di religiosità e di fede che va a guidare anche i testi che abbiamo avuto la grazia di leggere, a partire da quel "In erbu fiuriu" ("Un albero fiorito") che di tanto ardore è pienamente esemplificativo. In questa poesia così bassa, umile nella continua spoliazione di un sé che si sa altrimenti fermo, al rischio nella fragilità dei dolori e delle sofferenze umane è la rimemorazione, infatti, in accensione della propria creaturale bellezza, il riferimento naturale delle proprie ispirazioni. Nudità allora nell'inginocchiamento a rivestirsi di una sete che solo l'acqua riportata dalla terra a luce del suo seme, quel seme proprio di ognuno, può far rifiorire (dalle domande più pressanti) in identità il proprio albero. Identità che è quella che viene dal Padre, riconosciuta nel Padre, cui la parola va incontro con andamento insieme di raccolta reverenza o reverente accoglienza, ("Genuflessa a scaviò a mè tera/pe serciò quela semensa/lasciò 'ntu surcu/ca nu fa böttu"-"Genuflessa scaverò la mia terra,/ricercando quel seme/lasciato nel solco/che non vuole fiorire") nel segno così di una rimessa ricerca- e consegna d'amore. Non stupisce così il trasformarsi dello sgomento in assenso di fronte all'assorto silenzio di un mare (si legga "I serci de 'na pria"- "I cerchi di un sasso") che nel consolare dalle "neö mareée" ("nuove maree") di "duluri/che brüxan ancun" ("dolori/ che bruciano ancora") sa trasformare il condizionale del volere in volere stesso. Denudarsi, rivestirsi e ricordarsi, questo sembra la direzione verbale di un'autrice che ha la fedeltà delle sue iscrizioni nel sapersi abbandonare in una iscrizione più alta quello di un tempo bambino agile a riconoscere perché riconoscente a quei "grane de stélle" ("granelli di stelle") che nell'oscurità delle notti proteggono e segnano dal cielo alla terra il passo, preghiere come "a sciamma lü minuza dell'Angiu Custode/u m'afiova, di me atti i resposte"("la fiamma luminosa dell'Angelo Custode/mi affidava dei miei atti le risposte") e poesia, come in"Tei poezia (stisse de pensieri)-"Sei poesia (gocce di pensieri). Il sì, allora, nel ritrovato incanto come di luce da e verso gli "antighi passaggi/nte tracce d'amù" ("antichi percorsi/ in tracciati d'amore"), come pioggia d'antichità "nta terra ducö"("sulla terra del cuore") non può farsi che esso stesso incanto, specchiato incanto là"unde l'anima/a lasce tütti i cuntrasti" ("dove l'anima/lascia ogni contrasto"). Sulla soglia di questa porta cui la Biggio va a distenderci ci fermiamo, augurandoci la possibilità di una sua più ampia lettura e dunque la fortuna editoriale, anche fuori dall'isola, che meriterebbe. Ma questa, della trascurata attenzione di tanta buona poesia, è una vecchia questione.
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