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La poesia nella restituzione del mondo...

Argomento: Letteratura

di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 02/11/2018 18:17:38

 

Questo articolo è stato pubblicato in anteprima sul blog “Alla volta di Leucade”, di Nazario Pardini.

 

La poesia nella restituzione del mondo delle sue interrogazioni, nelle sue domande inevase partecipi del mistero di creazione da cui nasce è anche ricerca e voce di un attraversamento d’origine che incessantemente preme e determina. In questo crinale tra malinconia per imperfezione di conoscenza e suo generoso, assetato slancio nasce e si muove il lavoro di Roberto Maggiani, forse un unicum nel panorama poetico del nostro paese. Laureato in fisica ha infatti sempre unito nel suo dettato istanze scientifiche di formazione a quelle poetiche nel segno di un’antropologia non svincolata e dal tema, dal riferimento del sacro e a una cosmologia in cui l’uomo, non solo, non è che parte di mondi che attendono nella lontananza reciproche rivelazioni. La sua poesia, in cui al centro è dunque l’umano nelle sue diverse connotazioni, vive allora nell’intreccio di tante lingue a riprova della pluridimensionalità di un’esistenza che gioca a nascondersi ma che pure tra materia e spirito si impone e nutre nelle infinità delle sue corrispondenze. Sono questi gli angoli interni di cui con tanta passione Maggiani ci parla: riferimenti ancestrali che ritornano, richiami di una preistoria della carne, movimenti d’appartenenza il cui significato ci sfugge ma che nell’incontro con l’altro riconosciamo. Perché è infatti l’amore nella forza di una variante che non si determina la lingua di edificazione nei mattoni di un antico esperire che chiede - ancora, sempre - sopravvivenza e ascolto. Così è un viaggio all’indietro quello a cui il libro ci invita nell’asse di un cerchio che ha oggi nelle nostre dinamiche, nelle nostre storie il suo senso. Come Roberto Deidier ci ricorda nella esattezza della prefazione, risale in questo sguardo a un prima cosmico e geologico riportato nelle “ultime proiezioni di una necessità arcaica” la “metamorfosi incessante” di un percorso evolutivo che si tenta di sciogliere avvicinando “l’infinito degli spazi celesti e delle ere geologiche al finito apparente dei nostri istanti”. Qui nella possibile apertura delle infinite durate che dietro si celano, la pietà di un’interrogazione tra logica di scienza e dolenza del limite e dell’uomo nella navicella d’indagine che lo guida. Ed infatti, si chiede, siamo solo uno scarto del Dna, il cervello come risultato di un “lunghissimo/succedere di casuali migliorie” oppure “soffio di Dio”? O ancora, forse un esperimento evolutivo di una civiltà venuta da fuori? “In tal caso Dio sarebbe Scienza” gli viene da rispondere. Eppure ai nostri occhi questo autore apertamente esposto alle ferite delle sue inquietudini ci appare ancora ( nel suo tono tra scienza e tenerezza lirica, come in tensione di accompagnamento a una continua nascita; gli stessi versi molecole di un solo canto che ritorna e in noi si rinnova) l’uomo d’Africa da lui celebrato, da cui tutto è nato sceso dall’albero tentando la sorte nel “fuoco antico” del “terrore e dell’amore”; ancora nella caccia- e alla difesa- allora che improvvisa risale dall’inconscio ma pure sprovvisto dopo tanto cammino della chiave di rivelazione che possa proteggerlo in qualche modo dai furori delle propria conoscenza. Metafora in lui dell’uomo come da origine nella frattura delle sue infinite dispute; le formule, la parola, la preghiera non bastando nella solitudine di un grido che vede e reclama unità nella “fabbrica dei viventi” (“Il corpo ha dentro di sé i corpi/di generazioni e generazioni di uomini”). La stessa conciliazione tra ricerca scientifica e logos divino riesce a tratti, l’una provando a supportare l’altra dove fallisce ma pure nella separazione di chi rivendicando la condizione di una conoscenza libera ha in sé la sofferenza di un abbandono che insieme non lo libera e gli si cela (si legga il richiamo nel paradigma de “La mela”: “Eloì Eloì lama sabactanì”). Il tema della fede tra l’altro è da sempre uno dei cardini di riferimento di questa ricchissima e assai personale poetica, la questione della vita (il senso del nostro essere) al centro della sua scrittura. L’approdo è nella contemplazione analogica di uomo e creato, di uomo fra volta celeste e spaccature della terra (nell’intensità dell’accostamento fra la morte di una stella e quella dell’uomo- in grandezza o piccolezza) riconosciuta nella bellezza di un codice in cui l’equilibrio dell’universo germoglia e ramifica nel valore delle costanti, in cui una piccola, “minima variazione/ cambierebbe il destino del Cosmo”. Ed è una bellezza che arpiona e sgomenta creando un “sottile disagio” nel calore e nell’audacia di un tentare che apre abissi. Un Dio il cui pensiero non interrompe il dialogo, nel cammino di gioia che permette di attraversare il destino e che ha nei bambini (qui celebrati nella figura dell’amatissimo nipotino Pietro) il cuore di un credo che seppur provato dalle ombre ha in loro, nella loro capacità rinnovante la propria missione (Cosa porta un bambino di nuovo al mondo e che mancava alle altre vite si chiede nel rincorrersi della consegna). Ma pure è un Dio a cui non nasconde “dove le stelle rimangono impigliate”, nudo nella cecità e nell’affanno, occhi di Cristo che però al buio racchiudono “diavoli furibondi”. Non più credente nella chiesa e nei suoi riti, cosciente di essere frutto dell’evoluzione ma vicino alla Croce- seppur da uomo, non da cristiano- eccolo allora vedersi brandire “la Croce/ nudo per le strade del mondo/senza più un tempio”. Eccolo, ancora, lo sguardo verso l’alto a riflettere sull’uomo circondato da energie invisibili, da spiriti che possiedono gli spazi delle cose che osserviamo. Il richiamo così è ad accendere le luci in attesa che da un’altra terra fra le stelle simile alla nostra forse qualcuno risponderà (i più antichi abitatori dell’universo probabilmente quelli che della fantasia sanno far materia, capaci rendendo reali i pensieri di estrarre “dalla gioia il dolore” scegliendo “per il tempo che rimane la bellezza”). Di nuovo la bellezza, ecco, giacché da poeta autentico il suo in definitiva è un discorso sulla bellezza (non dimentichiamo che il titolo del suo precedente lavoro è “La bellezza non si somma”) e dunque anche dell’altro, qui incontrato non solo nelle vesti delle figure amate, negli affetti consueti ma fino all’eversione del fanatismo integralista in cui la morte non è “un destino ma una scelta”. Sulla morte allora si incentrano alcuni dei versi più intensi del testo dove il tema dell’abbandono si accompagna fino all’ultimo a quello della conoscenza, a una stizza quasi del perdersi dello stesso sapere, una “disfatta” cui è possibile prepararsi solo senza attaccamenti alla materia giacché “Tutto ciò che non è luce/è vago- anzi- inesistente”, l’universo riconosciuto nella “canzone d’amore-morte/ che il coro dell’umanità/ canta fin dagli albori”. In questo coro che in Maggiani è sempre appello di vita, luminosa dilatazione di gioia siamo così tutti noi a ben leggere le note, gli angoli interni di un canto la cui verità però, continuamente ripetuta da Dio, pochi avendone memoria sanno cantare anche nel buio. In questa direzione la chiusa dunque, nello scatto di responsabilità e orgoglio del poeta che nel suo compito di raccogliere “tutto il Cosmo in un solo verso” si fa carico dalle acque di una vita guardata “dalle profondità della terra”.

 

 

Scopri di più: www.robertomaggiani.it/angoli_interni.asp

 

 

 


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