Pubblicato il 24/06/2016 22:23:12
Mai sottoporre al popolo quesiti così “tranchant”, questo probabilmente starà pensando in queste ore l’ex premier inglese David Cameron dopo l’esito del referendum sulla Brexit che ha segnato un punto di non ritorno nella storia europea.
Con questo referendum Cameron è riuscito, suo malgrado, a spaccare il suo stesso Paese (dove il Nord, Scozia e Irlanda, ha votato in maggioranza per rimanere in Europa mentre l’Inghilterra -a parte la zona di Londra- con il Galles per uscire dalla UE) e a dare una fortissima spallata alla tenuta politica dell’Europa.
Sulle cause e le motivazioni che hanno provocato questo inaspettato risultato se ne discuterà per i prossimi mesi, se non anni. Ora, a caldo, ci sentiamo di esprimere solo alcune considerazioni di pancia, che poi probabilmente è quella parte del corpo cui gli elettori inglesi hanno dato ascolto.
La prima: il voto ha rivelato un’opinione pubblica britannica scollata dall’establishment del Paese. La Confindustria inglese, la finanza, i maggiori partiti politici, ad eccezione degli euro scettici, i media, tutti si erano pronunciati a favore della permanenza in Europa. Risultato: la Brexit. Di questo iato tra la popolazione e la classe dirigente bisognerà che i leader inglesi se ne facciano carico se vogliono governare il prossimo cambiamento che inevitabilmente attenderà quel Paese.
La seconda: il voto inglese modificherà per sempre la visione europea cui ci eravamo abituati sino a ieri. È stato un voto contro l’Europa, così come l’abbiamo pensata, organizzata e attuata, che evidentemente non è riuscita ad appagare la maggioranza degli inglesi. È quindi necessario ripensare al funzionamento e alla riorganizzazione, alla rifondazione di un’Europa che ormai non risulta più attrattiva, ma viene anzi percepita come una sovrastruttura burocratica di cui si può fare a meno.
Evidentemente non è stato sufficiente il mercato unico delle merci e dei servizi ed una moneta unica (di cui peraltro gli inglesi non godevano) per creare un Unione tra Stati che sia percepita positivamente, con favore, dai cittadini. Ci vuole altro.
Questa è la cruda realtà emersa dal voto inglese. L’Europa come l’abbiamo pensata non funziona. Del resto sui temi che solitamente costituiscono la base di una Federazione di Stati, come la fiscalità generale, la politica estera, la difesa, l’occupazione, i grandi investimenti, non si è mai attivata una politica europea comune. La nuova Commissione a guida Juncker aveva promesso un piano di investimenti straordinario per far ripartire lo sviluppo e l’occupazione, ma ancora non si è visto nulla o quasi. Anche il grande tema del debito pubblico europeo, di cui è sempre più evidente la necessità in questo perdurante clima di instabilità finanziaria, rimane per ora lettera morta.
In occasione delle ultime elezioni europee avevamo già evidenziato come ci fosse bisogno di un cambio di passo che a distanza di due anni non si è visto. Sul banco degli imputati non solo la Commissione guidata da un inadeguato Junker, ma anche e soprattutto la politica tedesca di Angela Merkel.
La Germania di fatto, in questi ultimi 15 anni è stato il Paese che ha più influito sulla politica del rigore e di austerity che ha portato l’Europa alla situazione attuale. Non è populismo, come molti dicono, ma la realtà basata sui numeri: per esempio quelli del surplus della bilancia commerciale della Germania rispetto agli altri Paesi, Francia e Italia per cominciare. Il voto inglese contiene anche un no a questo modello di politica europea e a questa impostazione germano centrica che l’Europa deve per forza modificare se vuole continuare ad esistere.
Ed infine, il voto inglese pone a nostro giudizio una questione non secondaria relativa al suffragio universale. Nella scelta di lasciare l’Europa, i giovani under 25 hanno votato al 70% per rimanere nell’Unione, mentre gli over 65 hanno votato in maggioranza per uscirne. Vi sono state differenze di voto anche dal punto di vista della formazione culturale, ma lasciamo perdere questo aspetto.
Rimane il fatto che una generazione di anziani la cui aspettativa di vita media si aggira intorno ai 10 anni, ha deciso del futuro di quella dei ventenni che per il resto della loro vita dovrà rinunciare a giocarsi la partita europea.
E questo non è giusto. Forse, quando in gioco ci sono decisioni su questioni che avranno ripercussioni per decine di anni, come in questo caso, si potrebbe pensare a porre un limite di età al diritto di voto.
Non sarebbe una discriminazione, ma una forma concreta e reale di democrazia “pesata”, due punto zero, forse più consona e adeguata ai tempi che stiamo vivendo.
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