Pubblicato il 07/07/2008 06:30:32
UNA DONNA SENZA CORPO Ovvero “Sul come mettere un corpo attorno ad un cervello”
Per anni mi sono sentita come un cervello abbinato ad un cuore e null’altro. Ogni specchio, ogni superficie riflettente, persino ogni fantasia o sogno mi restituivano un’immagine sfocata , intuibilmente goffa ed inadeguata. Come per un aborigeno, ogni foto mi rubava l’anima perché ritraeva quel corpo che non era mio, che non mi rappresentava e me lo imponeva, me lo consegnava malgrado il mio rifiuto. Una tortura: come in “Arancia Meccanica”, venivo punita per il crimine di non essere bella attraverso la costrizione a guardarmi. Legata e nell’impossibilità di abbassare, pietose, le palpebre dovevo guardarmi perché altri conservassero il loro diritto a fissare nel tempo i ricordi. Troppo intelligente ed orgogliosa per confessare a chiunque che quel corpo non era il mio, mi condannavo alla castità ed al solipsismo, pur di non dover scoprire quella disarmonica composizione di arti. Così cervello e cuore crescevano a dismisura, elaborazione ed abnegazione facevano di me una persona da includere, malgrado il mio aspetto. E il corpo sfumava sempre di più, si allontanava da me, viveva un’esistenza autonoma esercitando il sacrosanto dovere di tenermi in vita. Gli concedevo l’indispensabile: un adeguato numero di pasti, di lavaggi, di ore di sonno. Ogni tanto un contentino: una superflua permanente, una veloce depilazione, qualche palliativo per aggiustarlo quel tanto che bastava. Ero favorita in questo: una solida educazione cattolica e sessuofoba ed un inprinting adolescenziale di sano femminismo tenevano a bada lo scomodo involucro. Ma lo scriteriato, a volte, impazziva e voleva ricongiungersi a me, chiamandomi a gran voce: voleva essere accettato. “Sei brutto: nessuno ti vuole! Al massimo puoi essere considerato un optional non richiesto ma, comunque, compreso nel pacchetto”. Poi, inaspettato, è comparso lui, al quale bastava guardare quel corpo ridondante, morbido, pannoso per salutarlo nel più esplicito dei modi. E le sue generose e subitanee risposte convincevano cervello e cuore che quel corpo andava ripreso in considerazione. A lui piaceva con tutte le sue curve, i suoi rilievi, i suoi soffici avvallamenti. L’ho riammesso al mio cospetto e l’ho curato, perché piaceva a lui. Finalmente riuniti perché amati, il mio corpo ed io viaggiavamo insieme. E, per anni, è andata bene così, anche se rimaneva il dubbio che fosse qualche strana perversione a guidare il gusto e la scelta di quest’uomo che desiderava il mio corpo. Ma tant’è… Un giorno, fulmineo, lo squasso: l’ammasso di carne mandava segnali sempre più forti al cervello. Dolorosi e continui input conducevano mente e cuore nel tunnel del panico. Ed in fondo al tunnel c’era ad attendermi la morte. Il ribelle non voleva cedere all’imperativo categorico della volontà. Vibravo scossa da un virtuale elettroshock per, poi, sentire il corpo lasciarmi pezzo a pezzo: prima le labbra, poi il resto del viso, una mano, l’altra, un piede, la gamba… “Ci sei, ci sei: lo so, ti sento. Ma lasciami in pace, per pietà, lasciami riposare. Oramai sei tornato con me da anni”. Ma, ormai, il corpo non aveva più remore: poteva possedere il cervello ed, attraverso il cervello, far giungere il suo urlo sino al cuore. Così, costretta dal mio padrone, ho cominciato il mio viaggio. Sono tornata indietro raccogliendo ogni pietra, ogni lacrima, ogni goccia di sangue versato, ogni minuto sottratto, ogni piacere negato. E, dopo, di nuovo, ho rifatto la strada, ho superato il punto dove il corpo mi aveva inchiodata alle mie responsabilità. E, finalmente, sono andata avanti. E più camminavo e più cambiavo e più cambiava il mio corpo. Oggi non sono arrivata e nemmeno felice ma il mio corpo ed io stiamo insieme e, finalmente, lo riconosco: è mio, anzi, lui è me. E se mi guardo, mi piaccio.
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