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L’elaborazione del tutto

Poesia

Luca Bresciani (Biografia)
Interno Poesia Editore

Recensione di Gian Piero Stefanoni
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Pubblicato il 14/06/2019 12:00:00

Necessario è il primo termine che ci viene in mente al termine della lettura di questo nuovo libro di Luca Bresciani, quarantenne promotore culturale toscano. Necessario perché nella diagonale di un tempo vilipeso e offeso nelle sue ansie di separazione ci ricorda entro una parola esperta (ed esatta nel suo essere "asciutta e provocante" così come ben definita da Davide Rondoni nella prefazione) quel rischio di morte sotteso là dove il dolore nella sconnessione del corpo racconta del mondo, e dei mondi, il confino, della vita, a partire dall'anima il suo isolamento e, dunque, la sua negazione. La frattura sociale in questa "guerra inodore" che "varca senza bussare" si accompagna allora, in un gioco macabro di reciprochi tagli, alla costellazione silente delle tante implosioni personali e collettive, di solitudini ammassate, di inaccessibili ripiegamenti nel timore. Ed allora non è poi così banale come forse a un occhio semplicistico potrebbe apparire il richiamo immediato nei primi testi alle morti per mare perché esemplificative tra le altre di un appello a sorreggere la coscienza dal crollo dei contorni, se per contorni s'intende quella terra che nel suo comprenderci sa pure quale falla può aprirsi dal vizio di vivere soli col proprio strazio. Al proposito, così, mi vengono in mente queste parole tratte da "Cecità morale" di Zygmunt Bauman e Leonidas Donskis:" Quando il dolore morale perde la salutare funzione di avvertimento, di allarme e di spinta ad aiutare il nostro simile, inizia il tempo della cecità morale". Perché è qui che Bresciani mette il dito in una poesia per forza di cose molto corporea, il corpo veicolo di un riconoscimento che passa da se stessi all'altro nella direzione della rottura, della prossimità dunque che viene dal medesimo infangamento, dalla medesima secca. Un corpo a cui dedica testi e sezioni come un piccolo chirurgo, perché un bisturi la parola a ricucire, separare dal male una carne arroccata, compressa, a tratti disumana perdendosi l'indignazione nell'abitudine a qualunque tipo di morte, muta la pietà al dramma dell'altro. Ma è pure un corpo a suo modo immortale, "più antico del dolore" e delle sue muraglie ("dove l'amore precipita a valle"), quello cui il verso fa appello, il diritto alla disperazione riservato solo " a chi è innamorato del futuro". Per questo lo sguardo resta fisso a coloro che sporcandosi provano a "sradicare le lusinghe del buio" nel coraggio di comprendere di non essere solo l'inizio e il termine di se stessi ma chiave di una congiunzione nella quale anche il dolore se adottato e liberato dal rancore può "farci riportare vicino/il nostro io più lontano"nel diritto di sentirsi uniti "a se stessi e agli altri". Ed è per questa pena che il dettato che finisce per procedere per imperativi si batte o all'inverso contro la sua desolazione, la sua ricacciata all'inferno dell'infingimento si oppone. Perché di questo, per sua natura, infatti la poesia sa esser cura, e spina dorsale addestrata dal dubbio, nella china, " a seminare il cuore della terra". Terra, in quel girotondo in cui sono sempre gli stessi a cadere, per la cui uscita alla luce necessita una compartecipazione come detto, l'altro il gesto reciproco del nostro ripeterci all'infinito. Perché se il male "nasce dal buio/ di chi non sceglie", l'apertura accade nel compimento del rischio proprio dove il destino non è chiaro, obbligando "i sogni/a fare passi avanti". Nel segno di questa pietas, riportata nel suo valore riconoscitivo e fondante, il libro così va a chiudersi entro una interrogazione oggi non più eludibile. Ed è per questo, nonostante a tratti un eccesso della parola a dire il peso, che lo consigliamo nella sua necessità.


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