Curioso e a suo modo prezioso questo libricino di Luca Buonaguidi poliedrico trentenne toscano al suo terzo volume di versi (scrive anche di letteratura, musica e cinema). Frutto di un percorso durato cinque mesi attraverso India, Nepal, Bhutan, Sri Lanka, Tibet e Kashmire ci appare come un diario di viaggio in cui l'esperienza che ne deriva, nella trasformazione della persona e della poetica, ha il valore di una testimonianza spirituale come Bonaguidi stesso ricorda nell'introduzione nel riferimento a Moravia proprio a proposito dell'India. Corredato da foto personali (profondamente liriche e pertinenti per la comprensione del senso come nella lettera a fine testo son definite da Giulia Niccolai) e accompagnato nella scansione dell'itinerario, che ovviamente non è solo meramente fisico, da diverse citazioni- alcune delle quali anche da testi sacri indù- ha in sé l'iscrizione di un sentirsi e sapersi scorrere nel sospetto di una irraggiungibilità che sempre muove e spinge altrove, di un vento (elemento base della propria dialettica) in cui il Dio che si annuncia- lo annuncia- e svanisce sembra procedere con lui tra le smentite e le baluginanti- forse illusorie?- pronunce del giorno. Tra staticità e movimento infatti, nella liricità di istanti ora nel riflesso di un silente silenzio ora rivelatori, l'apprendimento è, nel pensarsi, nella graduale distanza da sé, nel sorridente gioco di una poesia che si costruisce e cancella da sola grazie proprio al Dio senza il quale "non ha voce" per cui "oscilla, depone". L'India allora nel contrasto della sua fame e della sua povertà con l'India suggestiva e morbida dei suoi colori e dei suoi odori è occasione per "guardarsi da vicino"- nella sincerità di una tensione lontana da ogni debordante curiosità occidentale- e nella scoperta di un sé, nel passaggio, portato a morire ("Mi sento a casa/ e mi sento appena,/trovo pace in quest'assenza"). La mutazione è nel cambio di prospettiva, nella consapevolezza di un interrogazione "sul valore/ dell'azione e della rinuncia" che non ha risposta, l'apertura ad un'attesa che si lascia vivere dall'ombra là dove ha cuore la forma e il canto devozionale di uno spostamento che onorando l'abisso (nella complicità di un silenzio ora inteso come "distacco interno da tutte le cose", ora un risveglio "da questo sogno di separatezza" nei riferimenti a San Giovanni della Croce e alle Upanisad dell'introduzione) sappia suscitare nell'avvicinamento il saluto e il respiro dell'anima. Nella significativa immagine di salire sopra un treno in corsa e sedere (nel riflesso della citazione dall'Isa Upanisad: "Il Sé pare si muova, ma è sempre fermo") pare raccogliersi allora tutto lo slancio di un anima appunto nella costruzione del mandala, verrebbe da dire, nel richiamo in se stessa- "dove l'appoggio è sicuro" per il placare della sete. Nei passi che noi mettiamo a caso e "di cui Dio sa tutto"- lui il padre della poesia, nella poesia il suo ritorno nel soffio dei passaggi: "Ci rivedremo/ancora,/altrove"- la consapevolezza di una fiamma che deve imparare a tenere a mente la propria casa, il "campo sacro" che fisso è, ci attende (secondo la lezione da Hilde Domin) per parteciparci a uno sbocciare che non termina di compiersi. La lezione di questi versi ci appare quindi nella consegna, in un tutto di "dolore e dolcezza", nella mistica di una fanghiglia che ci accoglie non desti e incompleti nel fiorire di un continuo e instancabile mattino. Versi che si sciolgono come preziosi strumenti (oltre che belli ) secondo l'auspicio dell'autore, e per questo netti, essenziali:"Potrei aggiungere altri dettagli/ma la felicità sta nel toglierli".