Quanta vita, quanto dolore e quanta luce noi uomini non vediamo delle donne che ci stanno accanto? A quanta direzione, quanto mondo in realtà non partecipiamo nel parallelo di rincorse che non scorgiamo forse assuefatti (se mai possibile) o indifferenti all'amore? Questo, e molto altro ancora, viene da chiederci dopo la lettura del bel libro di Lorena Turri entro un esordio intenso, interrogante, disarmante nel reclamo di una storia offesa nel circuito della sua progressiva cancellazione. Leggere una donna, ci richiama in faccia la Turri, significa fare i conti con una scrittura composta quotidianamente anche dalle indifferenze, dalle piccole e distratte disappartenenze maschili (vuoi per superficialità, vuoi per egoismo) ma anche (e non solo giacché altrimenti resteremmo appunto nella logica di una visione esclusivamente maschile) da spazi ed orizzonti di una pienezza vissuta nell'intreccio ora fecondo ora ristretto di una terra sempre desiderata e abbracciata. La scansione con cui allora Lorena si racconta è in qualche modo quella diaristica nella struttura di sei sezioni ognuna accompagnata da una breve frase introduttiva. E sono quelle della prima parte, sicuramente la più sanguinante, ad aiutarci nel tentativo di meglio riportare una lingua che nell'acme delle umiliazioni e delle distanze sa bene sempre, non smarrisce, il fiore bello dell'acqua e della nascita cui dare- per amore di sé e della vita stessa- cura. "La donna è come un libro che gli uomini, molto spesso, leggono per metà" oppure "Ti accorgi che la solitudine è veramente brutta quando, dopo aver stirato le lenzuola, non hai nessuno che ti aiuti a piegarle. E' in quel momento che devi farti forza e allungare le tue braccia più che puoi". E da queste braccia, nella simbologia forte di una mutilazione da sé e dai propri sogni di condivisione a cui non si vuole cedere, da questo corpo e da quest'anima dimenticata nella rivelazione della propria sconfessata identità (di compagna e donna nella pienezza dell'unione) è l'immagine della casa a farsi teatro di una intimità ora messa in scena in dinamiche prettamente d'assenza (la donna sola nelle proprie quinte d'amore) ora tutta raccolta all'interno di uno spirito, seppur sgomento , mai domo nelle proprie attese. Nel riferimento continuo della casa (che è dapprima nel cuore e nella testa), nel suo tema ricorrente, infatti la Turri ci racconta la storia di una fedeltà non a un'idea ma alla realtà profonda della propria natura di donna che, nella scelta, si sa nell'altro . Così nelle pieghe della rovina (perché di rovina si tratta, della coppia e del singolo, nello spazio d'orizzonte ormai reciso) "la casa d'amore è un sogno eroso", amarezza di un "nido che si è perso" nell'ossimoro di un rifugio che non smette di seminare chiodi nelle stanze. Infatti nella totale lontananza dell'uomo, che è tra le cose che più colpisce, la donna ci appare, nella ricerca di un difficile equilibrio che possa nutrire ancora l'insieme, compressa tra la custodia di un bene che chiede ancora vita ("Io- piccolo seme/accovacciato nel calore/che incoraggia la terra-/ascolto e mi nutro//aspettando un disgelo/che mi mostrerà fiore/sbucato dagli asfalti") e sua infecondità nella screpolatura che non cessa (così nell'indovinato accostamento di sé a un vecchio ulivo dimenticato da chi dovrebbe averne cura e che per questo può morire). Queste ombre, queste luci piegate a ridisegnare nei tratti l'affanno e la tenerezza d'amore e di desiderio (che la Turri sferza per mortificazione con rabbia:"Da sempre con le cosce spalancate/ ad un inderogabile dovere,/non so niente, più niente del piacere") sono la scrittura, nella sostanza, cui l'autrice reclama appunto dignità di lettura. Eppure nell'incapacità dell'uomo a farlo, e a spogliarla dunque della solitudine cui la condanna, ancora la forza della fedeltà a sé le permette di non cedere al giogo della promessa ma di rinsaldare piuttosto quella promessa nel cuore di un mondo che la chiama fuori, nello sguardo di reciproco incontro con la terra nella memoria del tempo antico e unico che è quello campestre del paese, quello della partecipazione collettiva e familiare. Si guardi con attenzione allora la quarta sezione, Natura, dove in modalità care al Pascoli (non a caso, forse, la Turri essendo toscana di Garfagnana) l'osservazione del mondo, l'apprendimento nel "senso della mela" che offre "i succhi buoni/come una madre nel suo ventre dolce" sono nel segno di un fiorire tutto in un infinito tessere d'insieme che l'uomo ha in parte dimenticato offrendole al tempo stesso l'opportunità di comprendere come nelle rose rampicanti di maggio dell'omonima poesia in cui "nessun petalo trema di paura/nel buio della notte" così nel dialogo l'uomo nella consegna al Cielo delle sue meraviglie. A proposito del Pascoli, poi, e di poesia dunque ("Qualcosa come un sogno/ma più reale,//come la vita ma più immortale , // come l'amore ma più corale " ) per un pane che " sembra misera pretesa" (giacché "il grano della vita più non trebbia"), dedica un'intera, omonima sezione, nella rivelazione di una scoperta (quella poetica appunto) cui è pervenuta tardi ma che l'ha aiutata nello scioglimento trovando nella quieta ispirazione delle cose il "cantico d'essenza" (nella consapevole sapienza di un dono che dà condimento alla terra nella condivisione piena della vita- "Soffro a cercare il Tutto e il Nulla dire./Di Tutto e Nulla riesco anche a patire") grazie anche a una parola in lei sempre esatta, sempre circolare nel dosaggio di forme e strutture, di risonanze ed evocazioni. Il miracolo allora si fa carico, la voce di Lorena si fa eco dei silenzi e delle negazioni di molte donne racchiuse nel coro unico di una disperazione e di una solitudine sovente senza appello e questo, aldilà dei meriti artistici comunque ragguardevoli, è il nocciolo di un testo più che degno.