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Una strana notte di Natale

di Giulia Bellucci
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Pubblicato il 25/12/2018 21:07:47

Ogni anno, all’approssimarsi del Natale, la gente viene investita da una sorta di frenesia dei preparativi. Tutte le case si illuminano di luci, addobbi, alberi da cui far pendere gioiose palline di qualsivoglia forma e colore, fiocchi, nastri, e via dicendo. C’è anche chi, invece, preferisce allestire un presepe, grande o piccolo non importa. Poi bisogna ricordarsi di preparare i regali per tutti i parenti e gli amici. Alcuni invece scelgono di partire per qualche posto lontano. Peccato però che tutto sembri risolversi, alla fine, solo in un grande bluff, perché la gioia dell’attesa s’arresta e presto se ne va, lasciando solo nuovo vuoto. Anno dopo anno, tutto si ripete in modo identico.
Anche Alfio detestava trascorrere le vacanze di Natale in città. Uscire di casa e imbattersi per le strade o all’interno d’un centro commerciale in qualche Babbo Natale, lo irritava. Per non parlare dell’effetto che avevano su di lui le illuminazioni festose che sembravano assalire, attraverso i suoi occhi, tutto il suo essere: un assalto feroce e insopportabile. 
Durante una passeggiata in montagna, che aveva fatto in un’estate circa un decennio prima, aveva scovato una vecchia baita isolata. Era raggiungibile solo dopo un tratto a piedi lungo all’incirca tre chilometri. Era immersa nella vegetazione selvaggia del bosco, ma in buono stato. Aveva notato fin da subito che doveva essere abbandonata. Se ne era innamorato e aveva fatto di tutto per risalire al suo proprietario e convincerlo a vendergliela. In realtà non era stato difficile poiché il tizio ormai viveva lontano. Alfio ne aveva fatto il suo rifugio e vi si recava durante le vacanze. Era un insegnante di italiano e latino e, inoltre, aveva la passione di scrivere. Quel posto faceva proprio a caso suo perché gli consentiva di trarre da quel silenzio la sua ispirazione. 
Da dieci anni trascorreva lì tutto il periodo delle vacanze natalizie. Aspettava che finisse l’ultimo giorno di scuola, lasciava l’appartamento in città caricandosi in macchina poche cose necessarie e partiva per immergersi in un sodalizio con la natura. 
La baita era circondata da abeti e faggi. Gli unici rumori che lì si potevano captare erano i versi degli animali, che lentamente Alfio aveva imparato a distinguere. A volte gli capitava di provare il desiderio di scappare per un senso di paura occulta, ma poi svaniva quando rifletteva sul fatto che in realtà nulla di male gli sarebbe potuto capitare. 
In città nessuno sapeva molto di lui in quanto era nuovo del luogo e vi era giunto solo da una quindicina di anni. Non parlava molto di se stesso, neppure con le poche persone con cui aveva stretto rapporti più confidenziali. Nessuno sapeva perciò dove andasse in quei periodi in cui spariva dalla circolazione: estate, Natale, Pasqua e diversi fine settimana.
Quell’anno, il ritiro nel bosco era stato davvero agognato da Alfio a causa di una strana sensazione che l’aveva assalito fin da inizio novembre. Quello che era giunto dopo, era stato un mese di dicembre freddo più del solito e lassù in montagna era già caduta la prima neve. Alfio però non aveva desistito e si era buttato tra le braccia della natura. Ogni anno in estate provvedeva a fare una cospicua catasta di legna con quella raccolta nel bosco e caduta durante l’inverno passato. Inoltre faceva una buona scorta di riserve alimentari, soprattutto scatolame e roba a lunga scadenza e sottovuoto. Tutto il necessario per trascorrere lì una quindicina di giorni. In quella baita nascosta buttava giù fogli su fogli. Le pagine più belle della sua vita le aveva scritte lì e ne aveva tirato fuori un bellissimo romanzo che aveva avuto un discreto successo. Ma Alfio non aveva voluto nulla del ricavato delle vendite, il proprio guadagno lo aveva devoluto interamente alla ricerca sulle malattie rare, senza che nessuno ne sapesse nulla.
Nel camino della baita, il fuoco crepitava allegramente e Alfio se ne stava seduto su una vecchia sedia di paglia ad attizzare i ciocchi ardenti. Era la sera della Vigilia di Natale e lui era giunto lì quella mattina. Il tempo era buono e la neve poca. Solo alle spalle delle baita, salendo a quote più alte, lo strato di neve accumulatosi era già alto. Ad Alfio piaceva guardare tutto quel bianco che sovrastava dall’alto. Una civetta era venuta a pigolare su un albero vicino, ma Alfio non era superstizioso e lo aveva accolto come un segnale di vita. Aveva sentito, lontano, un latrare di cani selvatici o forse lupi. Un lieve vento aveva iniziato a sibilare, scuotendo gli alberi. Aveva udito dei colpi come di qualcosa che urtava contro qualcos’altro. Aveva pensato che si trattasse del ramo dell’abete che aveva visto a una spanna dal tetto. Il vento probabilmente ve lo sospingeva contro: sarebbe dovuto salire e spezzarlo il giorno dopo per evitare tale inconveniente, ma ora era buio e doveva per forza tollerarlo. Aveva fatto fatica ad addormentarsi a causa dei rumori. Si era però svegliato dopo qualche ora a causa dei colpi netti. Avrebbe preferito ignorarli ma non c’era riuscito. Si era reso conto che, a parte quei rumori, fuori il silenzio era totale. Tutto gli era apparso improvvisamente strano: anche se il vento non infuriava più, i colpi continuavano a susseguirsi. Si era reso conto che qualcosa stava sbattendo contro la porta. Aveva preso la torcia e, con fare circospetto, si era avvicinato all’uscio. Lo aveva aperto appena e, dalla fessura, aveva visto un bambino simile a una statua di ghiaccio. Addosso aveva uno strato di neve che lo ricopriva completamente e, anche dietro di lui, tutto era bianco. Aveva spalancato la porta e lo aveva fatto entrare. Aveva atteso qualche istante pensando ci fosse qualcun altro dietro di lui, ma nessuno era apparso. Allora aveva richiuso la porta dietro di sé. Aveva iniziato a rivolgergli mille domande senza ottenere alcuna risposta: il bambino sembrava mummificato. Allora aveva riattizzato il fuoco e ve lo aveva portato vicino, gli aveva scrollato con un asciugamano la neve di dosso, tolto i vestiti bagnati e avvolto in una coperta. Aveva preparato per lui del latte caldo. Lentamente e a fatica il piccolo ne aveva sorseggiato un po’. Alfio non poteva fare a meno di osservarlo. Poteva avere sei anni o qualcuno in più. Non riusciva, in quella semioscurità, a distinguere con chiarezza i tratti del suo volto. Aveva riprovato a fargli alcune domande, ma con lo stesso esito. Il bambino appariva sotto shock. 
Alfio lo aveva fatto sdraiare sul letto buttandogli addosso una coperta e il bambino aveva chiuso lentamente gli occhi e si era addormentato. Alfio rifletteva su quello che avrebbe dovuto fare e, da qualunque punto di vista esaminasse la situazione, giungeva sempre alla stessa conclusione. Forse il bambino si era perso, forse c’era un’altra baita in qualche punto del bosco e magari si trovava lì con i suoi genitori. Forse si era allontanato da solo e aveva perso l’orientamento. Questo pensiero gli aveva messo un’ansia indescrivibile addosso. Immaginava una madre disperata che cercava suo figlio; occorreva trovarla e rassicurarla. Ma cosa poteva fare lui, a quell’ora della notte? Non c’era segnale telefonico, forse a causa della bufera che si era abbattuta sul bosco, e quindi non poteva telefonare a nessuno. Aveva guardato di nuovo fuori:  c’era almeno mezzo metro di neve e continuava a nevicare incessantemente. C’era un’unica cosa da fare: attendere la luce del giorno.
Non aveva preso più sonno per il resto della notte. Si era addormentato solo verso l’alba e quando si era svegliato una luce bianca e abbagliante proveniva da fuori. La nevicata era cessata e il sole splendeva, ma un muro di neve alto poco meno di un metro si opponeva all’uscita dalla baita. Il bambino dormiva ancora nel letto. Alfio si era avvicinato e lo aveva osservato bene. Un grande stupore lo aveva colto all’improvviso vedendo la grande somiglianza con suo figlio Mattia, morto quindici anni prima, a soli cinque anni, a causa di una malattia rara di natura genetica. Era accaduto tutto una mattina di Natale. Senza alcun preavviso il suo cuoricino si era fermato e, con esso, si era spenta in sua moglie la voglia di vivere. Era morta anche lei pochi giorni dopo, schiantandosi con la sua macchina contro un camion. 
La vista del bambino aveva rievocato in Alfio un grande dolore che, pur appartenendo al passato, non era riuscito a seppellire.
Il bambino, sentendo l’uomo muoversi nella stanza, si era svegliato e si era messo a sedere sul letto. A quel punto Alfio non era più riuscito a trattenersi e gli aveva chiesto: «Chi sei? Da dove sei sbucato stanotte e cosa ci facevi da solo nel bosco?»
«Mi chiamo Mattia» aveva risposto. «Sono venuto a salvarti.»
Alfio aveva spalancato gli occhi e il suo cuore aveva preso a palpitare. Pur facendo finta di nulla, lo aveva guardato ora che era sveglio e aveva notato ancor di più quella somiglianza negli occhi verdi e nello sguardo, sebbene sapesse che era davvero improbabile qualsiasi collegamento concreto tra un evento così lontano e l’oggi.
«Chi sono i tuoi genitori? Dobbiamo ritrovarli! Dimmi il numero di telefono della tua mamma in modo che io possa rintracciarla. Sarà sicuramente in pena per te.»
«Mia madre mi attende in cielo.» aveva risposto il bambino.
«Vuoi dire che è morta?»
Il bambino aveva annuito.
«D’accordo. E il tuo papà?»
«È laggiù, in città.»
«Ricordi il suo numero di telefono?» lo aveva incalzato Alfio.
«No, puoi portarmi tu da lui?»
A quel punto Alfio aveva pensato che il bambino si prendesse gioco di lui. Aveva preso il telefono con l’intento di chiamare la polizia o i carabinieri. Si era reso conto che non c’era alcun segnale e la batteria stava per esaurirsi. Lo aveva dimenticato acceso. Mentre rifletteva sul da farsi, aveva preparato la colazione al bambino con latte e biscotti. Si era affacciato dinanzi alla baia e aveva notato che, più in alto, aveva ripreso a nevicare e tra breve la neve sarebbe tornata a cadere anche lì. Se voleva riportare il bambino in città, doveva fare presto.
«Ok», aveva detto rivolgendosi al piccolo, «Avviamoci».
Aveva fatto salire il bambino su una tavola di legno liscio a mo’ di slitta, cui aveva legato una corda per trainarlo e lui aveva inforcato gli sci. Così erano partiti sul sentiero che li avrebbe condotti verso il posto dove aveva lasciato l’auto. Pensava che, forse, lì la neve sarebbe stata più bassa. Era stato davvero difficile trascinare la tavola col bambino sopra, la neve era soffice ancora, e qua e là affossava. Alfio faceva fatica e più volte aveva dovuto fermarsi. Dopo quasi un’ora, aveva intravisto la macchina a un centinaio di metri, l’altezza della neve caduta era diminuita di molto. In quel momento aveva udito un rombo molto forte, misto a un boato. Si era voltato nella direzione da cui proveniva il rumore e aveva visto una grossa valanga che si andava a schiantare proprio sulla zona della baita. Gli alberi erano scomparsi completamente sotto quella enorme massa bianca. Dopo, il silenzio. Si era voltato a guardare la tavola. Il bambino non era più lì. Si era guardato intorno, ma nulla. Allora aveva iniziato a chiamare a gran voce il suo nome. Niente, nessuna risposta. Sulla neve intorno non una sola traccia di passi. Sembrava svanito nel nulla. Era stato allora che aveva ricordato le prime parole dette dal bambino quella mattina. Aveva sentito il proprio corpo investito da un’improvvisa ondata di calore. C’era qualcosa di impalpabile vicino a lui.
Aveva cercato di raggiungere l’auto con una convinzione nuova per rientrare in città. Da allora aveva deciso di tornare alla baita solo in periodi meno disagiati e non più con il desiderio di sfuggire al mondo, ma con quello di sentire di nuovo la vita rinascere dentro di lui, come era accaduto in quella strana notte di Natale.


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