Mangiafuoco
Descrivilo come di fuoco. E non badarci più di tanto.
Prima la stanchezza penda dalle braccia d’angeli
irrequieti per il dover tornare mortali, come ben sappiamo.
- Penso al mio Dio, alla terra, ai pianeti. -
- Poco più in là, deporrai la pistola. -
Così s’arrese il predatore, a un pallore
che morte gli riconobbe presto, generosamente.
Scendeva le scale con l’attenta paura di cadere:
l’attendeva un vento inatteso che si ritma con le mani,
s’imprigiona ai fanali dove s’affollano gli insetti.
Per concludere che ci aveva traditi, Giacomo.
Non aver guardato oltre la siepe, immaginando
noi che rimaniamo specchio di noi, profumo
incerto d’una lacrima, ultimo palpito di domani.
Posso però giurarti che quella nuvola
appena scomparsa non t’assomigliava
nemmeno un po’, anche se ne avrai a male.
Di quando si parlava di sogni
Di pianeti. Un percorso. Distanti. Interminabile.
Di questo si parlava, senza sapere d’astronomia,
mai aver letto una cartina, eppure credendo
l’un l’altro, sorridendo, annuendo, poter convincere
persino gli angeli a partire, le ragazze che tutto
sarebbe stato facile e ci sarebbero stati comodi letti
e ombre per la notte e tempo per la pigrizia.
Ma bastò Giacomo, il più sapiente, dichiarasse
tempo perso, il cercare issare a bordo dell’astronave,
con il destino, il cestino coi panini, i sacchi a pelo,
le lenzuola lise, la polaroid, la chitarra.
Ognuno si riprese quel che era finito nel mucchio:
il vocabolario d’inglese, i vinili di Neil Young,
la tanica per l’acqua, le caramelle molli, le amache,
i teli di nylon, la tenda a casetta, il bikini amaranto
della canzone di Guccini, le paure dell’ignoto,
il tè indiano, un pallone rattoppato, la cartina d’Europa.
Solo la preghiera taciuta rimase nei labirinti
dei pochi resti sudici che nessuno voleva
riportarsi a casa. Sta forse ancora là. Forse.
Ad immaginare un dopo
Provo a immaginarmi scomposto a breve
in ossa che sfogliano poi in carta velina,
sopra cui scrivere porterebbe piacere
a chi tenta farlo sempre e solo sopra
ragnatele scomposte e foglie marcescenti.
Sorprendendosi dunque, se nulla rimane
se non polvere ed acqua e bava di lumaca
o terra smossa da talpa e buco di topolino.
Tanto mi potrebbe bastare per conquistarmi
quel poco d’eternità vien messa in palio
ad ogni apparire di sole dopo tempesta,
riconoscendo che, pur lontani, i richiami
sono sicuramente per noi, raminghi e soli.
Potrò rassicurarmi, certo potermi addormentare
nei sotterranei di musei farinosi dove stanno
le cose dimenticate, mai esposte, mai ammirate.
[ Opera I classificata al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di Babuk - Proust en Italie, VI edizione 2020, sezione Poesia ]