SAPERE DI TE
Curioso sapere di te
da due strisce decise, un rosso acceso
su uno stick di plastica bianca
cartina di tornasole, alchimia
di non so quale imprevisto demiurgo.
Sei attesa, radice di silenzio
principio di ogni possibile giorno
ma breve è la misura del tuo esistere
già strappi istanti al corso del tuo tempo,
oggi solo una fitta impercettibile
poi trepido sfarfallio d’ecografo
polline di fiato, quieta distanza
che attimo su attimo si colma.
Io ti crescerò battito su battito
con la perizia attenta d’un orefice
a mani nude ti consegnerò
quell’ingombrante vita che pretendi.
Non avere fretta di essere mondo
nulla andrà perduto, ti tratterrò
l’effimero d’un fiore
l’angusto spazio d’una neve.
Non avere fretta, qui tutto scalcia
conoscerai astio, menzogne d’uomini
impietoso linciaggio d’anni, tu
fanne limo profondo di sapienza
verità, come di provvida pioggia
rettitudine e inalterato amore.
CONCETTO SPAZIALE. ATTESA
(Lucio Fontana 1960)
La luce, quel confine da violare
e che ogni volta sa scivolare oltre
sprofondare nella sua bocca d’ombra.
È questa tela ad esserne la lama
a farne dello scempio un varco, crosta
che si spezza tra le dita. Lo spazio
fu acqua dove intridersi
vena che s’offre al boia.
Lo stanai nella sua casamatta
al baratto di tutte le sue nascite.
Forse bastò solo schernirlo.
Fu come appoggiare l’orecchio
su una sistole del cosmo, impietrirvi
la pupilla. Per questo scelsi minima
l’arte, perfetta
la sottrazione.
DI UN INCOMODO PELUCHE
LA POESIA: confidenziale colpo di gomito alla morte
qui inibita dalle sue (per un attimo) gambe corte.
(Andrea Zanzotto)
L’ippopotamo già stinto da troppe
lavatrici, infeltrito dal rullio
radente delle ore, dici sia scudo
contro i cicloni, spauracchio del buio
come quando vegliava le tue notti
nel tralucere a lato al comodino.
Forse erede di quell’infilascarpe
quell’immondo cornetto arrugginito
liquidato comme il faut al terzo Xenia
alberga lì tra i limoges, i boemia
le cornici d’argento, i memorabilia
in spregio della polvere
a sfregio del decoro della casa
e secréto sull’orlo delle palpebre
come amuleto a guardia dagli inganni.
Ma altro ti significa quell’indomito
relitto d’infanzia. È nell’imbarazzo
in cui giace attonita sul foglio
indugio su indugio, verso su verso
la circospezione la maestria
tua di scrivere, perché non è afflato
di memoria non sura non bestemmia,
perché come quello sconcio ippopotamo
mai nulla cambia né mai serve
a nulla mai la poesia,
declinazione esatta
prontuario dell’inutile. Inutile
e irrinunciabile.
ZERO AL QUOTO
Chi sa come t’immagini, se appanna
la tua linea esatta quel po’ di specchio
dove il vapore reinventa il mondo
mentre t’asciughi uscendo dalla doccia,
chi sa cosa resta di quel te impavido
che si scaglia come una profezia
sulle formule delle celle excel
e tutto inesorabilmente quadra.
Dicevi vizio, estro di simmetria
quello sdoppiare, sfaccettare il senso
quando unica è l’aria che si respira
per gradazioni appena più sbiadite
monocromie di soffocamento.
Così pensavi di quell’infittirsi
dei numeri da interi a relativi
quel loro suddividersi in frazioni
radicali e mantisse logaritmiche,
perché si progredisce tutti ad una
diversa densità degli infiniti.
Nelle fessure della pece algebrica
che appiccica i numeri mosca a mosca
credevi vi fosse un tarlo di spazio
che tira le somme, o almeno conguaglia.
Dicevi, poi si fa piano la conta
ci si rassetta il riccio fuori posto
si bagna il labbro, quieti si ragguaglia
si schiarisce la voce e con la mano si
fa buonasera, e più non ci si sveglia.
Si mette zero al quoto, tutto intero.
Si dice vedo: più non ci s’imbroglia.
[ da Zero al quoto, Fabrizio Bregoli, puntoacapo editrice ]