I
Quando parlo con te, in un perfetto allineamento di giorni disperati
e ti sento frusciare dietro ogni laterizio di questo secolo
(o forse è il gesto dei tuoi continui disappunti)
«Dio» ti dico
«Il cielo è tornato del colore di quando non c’eri!»
Hai tanti nomi, così pieni di spifferi d’aria
che noi qui ci sentiamo infreddolire
spiattellando storie del Corano e della Bibbia
senza aver imparato a chiamarti
perlomeno con un nome comune.
Però ci vuole coraggio a pronunciare i tuoi nomi:
una pietra potrebbe dire di non sentirsi amare abbastanza
se fallissi l’accento o mi tradisse l’ironia.
E quando scrivo il tuo nome con la mia Parola
non è lo stesso di quando lo scrivo in pashtō
o in hindi o in curdo.
Ti abbiamo degradato a un dio dei nomi
un dio delle razze, un dio di geopolitica.
Che strane cose l’uomo è capace di renderti
non solo tu a noi i miracoli!
Così ti domando:
«Con quali dei tuoi nomi hai chiesto a un ragazzo laggiù
di farsi esplodere davanti a un’ambasciata?...
o qui a un prete di portare un anello al dito
e il colletto sotto i piedi?»
Non c’è niente di tuo in questa grama vistosità!
Solo la nostra intransigenza nel voler credere
che porti un nome e un verbo
per ogni popolo che ti accoglie …
O, ma se tutti... se tutti ti chiamassero Mario!
II
L’uomo della Jihād, l’uomo Occidentale
sono bulbi della stessa cecità.
Io li vedo in televisione brandire il loro dio opportuno
con minacciosa diffidenza
come se quelle iconografie fossero state elette
al podio celeste
ognuna con un suffragio di parte
senza mai aver supposto un dio universale
più grande di questi rappresentanti sindacali, e meno volubile.
Io sono stanco di buttarmi per terra e fingermi morto
aspettando un’esplosione
quando scagliano qui
il loro idolo fazioso contro grattacieli che scrollano
con espressioni telegeniche
o laggiù, su tende di villaggi e campi di sesamo
che ora sono pozze a cuore aperto
scavate dalle unghie delle mine.
L’uno inganna e spreme la sua motrice
con la faccia pulita da soldato del fiume Hudson
(benché il dio che ha assunto
abbia ben poco di divino e quasi tutto di predoneria).
L’altro si copre di gellaba
e lucidamente punisce la sua donna
mentre continua a stanare topi nelle buche del deserto
per vestirli d’arancio e accusarli di essere infedeli.
Sono stanco di dover chiedere che mi riconsegnino
un dio che non abbia il difetto di avere polso solo per qualcuno
e vorrei invocarlo intimamente per le mie colpe
(di certo meno mondane)
senza doverlo sbattere in faccia alla gente.
III
Ho fatto un sogno questa notte. Nera e dura era in principio
come le notti di questo secolo appena quindicenne
ma già segnato da inguaribili leucemie.
Un sogno che ancora vaga e sto sognando
benché sia sveglio e sono di guardia.
Eravamo ai piedi di una palma
dalle parti di Kandahar (o forse era un ulivo
o sotto una “Pietà” di un carrarmato inglese
che portava sul grembo la sua canna spezzata).
La Bibbia e il Corano erano sulla sabbia.
Al sole tra le pagine abbiamo cercato...
con più luce tra le righe abbiamo cercato
senza trovarvi incitamento per ciò che commettiamo.
E scorrendo, io un verso... tu una sura
e lasciando andare il momento, con stupore
abbiamo letto - l’un l’altro a cuor leale –
che siamo figli di uno stesso padre che si chiama Abramo...
(figli dello stesso utero della terra!)
Allora ho pensato: “Non c’è niente che allontani più lontano
di una parola messa sulla bocca di un cannone”.
E ci siamo sentiti alleviati
gettandoci incontro alle corde di quel rubab*
che suonavi al grido - del mio grido fratello! -
di non dover più decapitare un’emozione comune.
Abbiamo riso. Abbiamo pregato...
È scoppiata una bomba!
Un sogno che ancora vaga e sto sognando
benché sia sveglio e sono di guardia
...mentre aspetto che sbuchi dalla sabbia
e mi punti addosso il tuo fucile!
* È uno strumento musicale a corde, simile al liuto, considerato insieme al zerbaghali (piccolo tamburo fatto di argilla a forma di calice) uno dei due strumenti nazionali dell’Afghanistan.
Poesie seconde classificate nella prima edizione (2015) del Premio Letterario Nazionale indetto da LaRecherche.it: Il Giardino di Babuk - Proust en Italie
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