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La regina delle fate

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Io ero in piedi sul letto. A volte salivo anche sulla scrivania, ma lì era pericoloso. Ma dovevo stare in alto. Le creature magiche stanno sempre in alto. Domandavo alla mia sorellina: “Facciamo che chiamiamo la regina delle fate? Da lei possiamo sapere tante cose.” “Mi darà qualche nuovo gioco?” chiedeva lei.

Io invece avrei voluto che papá smettesse di bere e che la mamma fosse più felice.

“Allora devi chiudere gli occhi. Li chiudo anche io e poi quando ti dico di riaprirli, guarda e stai in silenzio”. E lei si concentrava, le mani a coprire gli occhi, mentre io…  

La regina delle fate vestiva il suo abito più bello. Era di raso blu come la notte con arabeschi argentei che percorrevano tutta la gonna. Foglie di vite e rami attorcigliati d’argento salivano sul bustino fino al collo.

Sul capo un velo blu copriva anche il volto, per celarla agli umani, che avrebbero potuto con il loro sguardo corrompere la sua magia. Il bellissimo copriletto, dote della mia mamma, era l’abito perfetto per la regina. Bastava poi usarlo alla rovescia e argento e blu si scambiavano. Così la regina delle fate talvolta poteva vestire il colore della luna e gli arabeschi diventavano blu come la notte.

“Eccomi! Mi riconosci?” facevo io con voce di fata. Com’è la voce di fata? Non so, non ricordo, ma certo doveva essere una voce importante e solenne, magari un poco cantilenante o forse poteva assomigliare ad un tintinnio. Nella nostra cameretta, la mia sorellina seduta per terra, mi guardava con gli occhi sgranati. I suoi boccoletti biondi immobili. Stava tutta fissa e quasi non respirava.

“Hai visto che magia? Te l’aveva detto tua sorella che sarei venuta.” Ma lei, piccina, voleva sapere se sua sorella sarebbe tornata. E io, che non ero più io, ma la regina delle fate, ci credevo ancor più di lei. Quello era un gioco che mi piaceva così tanto. Io dovevo sparire e al mio posto mandare la fata.

A volte io non volevo tornare. Non volevo proprio essere io. Troppo bello essere un’altra e magica per di più. La magia riusciva sempre, forse proprio perché mi trasformavo veramente. Oh si, ero un’altra. Le molecole del mio corpo lo volevano. Tutta la stanza era un altro luogo: un castello, un bosco magico, un salone incantato.

Piccole noi due. Più piccola lei. Cosa ne sapevamo di favole e incantesimi? Nessuno ci raccontava di queste cose. Forse qualche storia la mamma. Sì, mi ricordo di Prezzemolina e di qualche orco e di una favola che leggevo sempre, le fate fragoline. Dolorosamente ammetto di non avere molti ricordi di altri racconti. Le storie stavano nella mia testa e si sviluppavano attimo per attimo. Improvvisavo personaggi, mi travestivo. Ogni oggetto che mi capitava fra le mani diveniva parte delle mie trame. Coinvolgere mia sorella era naturale. Spesso travestivo anche lei.

Negli anni, quando diventammo più grandicelle, qualche buon’anima ci regalò delle bambole, che diventarono le protagoniste delle mie sceneggiature. Il lavoro più lungo consisteva nel trasformarle nei personaggi che inventavo. Sempre creature fantastiche e bellissime. E finalmente venne l’iscrizione alla biblioteca di quartiere.

Da allora ho conosciuto infinite storie e altrettante magie.


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