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al testo di Ivan Pozzoni
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EDITORIALE La sconfitta di ogni silenzio definitivo come forma di resistenza all’inesistenza (Ivan Pozzoni)
Già difficile da motivare escatologicamente, la morte non deve mai assumere i tratti di una condanna definitiva al silenzio.
Dove il rumore di fondo si scontri con un silenzio definitivo, uscendone amplificato, il brusio del vuoto chiacchiericcio heideggeriano domina la scena dei teatri della società, trasformando i vari attori, noi tutti, in burattini muti e senza radici, distanti da ogni nostalgia di boschi d’alberi e mossi, unicamente, dai fili tirati da autorità, non autorevoli, disimpegnate e senza scrupoli. Come non deve fare a meno dell’idea stessa di comunità interindividuale, in un post-moderno orientato a diluire la nozione di comunione nell’alveo di strutture fluide come «sciami» o «comunità guardaroba» ciascun individuo ha il dovere di combattere, in vista della realizzazione di una sincera «comunione coi morti», liberando i morti dal silenzio definitivo e svincolando se stesso dalle catene dello sradicamento; ciascun individuo ha il dovere di concretarsi ricettore, neuro-trasmettitore, attore di memoria, registrando e veicolando «voci» di morti, sconfiggendo morte fisica dei morti e morte civile dei vivi.
La sconfitta di ogni silenzio definitivo, di vivi o morti, avanza il cammino dell’umanità sulla strada dell’immortalità, rendendoci liberi dalla morte e nella vita; ogni «comunione coi morti» è forma di resistenza:
BALLATA DEGLI INESISTENTI
Potrei tentare di narrarvi al suono della mia tastiera come Baasima morì di lebbra senza mai raggiunger la frontiera, o come l’armeno Méroujan sotto uno sventolio di mezzelune sentì svanire l’aria dai suoi occhi buttati via in una fossa comune; Charlee, che travasata a Brisbane in cerca di un mondo migliore, concluse il viaggio dentro le fauci di un alligatore, o Aurélio, chiamato Bruna che dopo otto mesi d’ospedale morì di aidiesse contratto a battere su una tangenziale.
Nessuno si ricorderà di Yehoudith, delle sue labbra rosse carminio, finite a bere veleni tossici in un campo di sterminio, o di Eerikki, dalla barba rossa, che, sconfitto dalla smania di navigare, dorme, raschiato dalle orche, sui fondi d’un qualche mare; la testa di Sandrine, duchessa di Borgogna, udì rumor di festa cadendo dalla lama d’una ghigliottina in una cesta, e Daisuke, moderno samurai, del motore d’un aereo contava i giri trasumanando un gesto da kamikaze in harakiri.
Potrei starvi a raccontare nell’afa d’una notte d’estate come Iris ed Anthia, bimbe spartane dacché deformi furono abbandonate, o come Deendayal schiattò di stenti imputabile dell’unico reato di vivere una vita da intoccabile senza mai essersi ribellato; Ituha, ragazza indiana, che, minacciata da un coltello, finì a danzare con Manitou nelle anticamere di un bordello, e Luther, nato nel Lancashire, che, liberato dal mestiere d’accattone, fu messo a morire da sua maestà britannica nelle miniere di carbone.
Chi si ricorderà di Itzayana, e della sua famiglia massacrata in un villaggio ai margini del Messico dall’esercito di Carranza in ritirata, e chi di Idris, africano ribelle, tramortito dallo shock e dalle ustioni mentre, indomito al dominio coloniale, cercava di rubare un camion di munizioni; Shahdi, volò alta nel cielo sulle aste della verde rivoluzione, atterrando a Teheran, le ali dilaniate da un colpo di cannone, e Tikhomir, muratore ceceno, che rovinò tra i volti indifferenti a terra dal tetto del Mausoleo di Lenin, senza commenti.
Questi miei oggetti di racconto fratti a frammenti di inesistenza trasmettano suoni distanti di resistenza.
Ivan Pozzoni [L'Arrivista, n.1/2012]
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