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Basquiat - Training e sperimentazione.

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Basquiat: Training e sperimentazione.

A fronte delle problematicità rilevate, si vuole capire se la forma espressiva di Basquiat sia frutto del ‘paradosso’ della sua giovane età, del diverso colore della sua pelle, o soltanto un modo di comunicare agli altri qualcosa che riguarda il proprio disagio, visto attraverso lo specchio sviante, di un sé proiettato alla ricerca di altri esempi di essere o in funzione di esplorare trame di vita diverse. Problema che porta a quell’inquietudine che le sue opere trasmettono, e di cui, solitamente, non si parla, se non in forma di trasgressione e divaricazione della ‘normalità’ (1).
Come scrive Alasdair McIntyre (2) in “Animali razionali dipendenti” a proposito di queste problematiche attive nei diversi soggetti : “che hanno prodotto una qualche criticità, introdotta e/o causata da forze esterne travolgenti e ingovernabili”, e comunque difficile da arginare perché più spesso messi in atto nel tentativo di assecondare atteggiamenti autodistruttivi, al limite dell’ ‘autolesionismo’ (3) cui Basquiat fa ricorso in diversi momenti della sua giovane vita.
Aspetti questi, che riconducono il fenomeno sul terreno della ‘performance’ elaborata a suo tempo da Victor Turner (4), relativa al concetto di ‘struttura’ e ‘anti-struttura’ utilizzata nei processi sociali che, ancora oggi, permette di rilevare quelle che sono le forme portanti e le successive trasformazioni dell’esperienza umana. Così come di: “riconoscere, in certo qual modo, la vulnerabilità individuale – ma anche sociale – nel compiere determinate scelte, come condizione essenziale per comprendere le ragioni e le modalità che le rendono necessarie; sostanziale per capire fin dove l’individuo arriva a scegliere in piena autonomia (libero arbitrio), il proprio ruolo nella vita e nel mondo”.
Resta il fatto che un fenomeno come quello che si sta analizzando preclude da tutto quanto fin qui detto, per aprire invece connessioni parallele che vanno nei soggetti ‘giovani’, dalla superficialità nel valutare i rischi, alla irresponsabilità di fronte ai pericoli e alla mancanza di consapevolezza del valore intrinseco della propria vita e di quella altrui. Ed è proprio in questo il problema o, se vogliamo, il paradosso che l’opera di Basquiat nel suo insieme solleva, per appunto nel trovare accesso autonomamente nel mondo dell’arte attraverso le sue origini di artista di strada, in quella costante e inasprita denuncia sociale, fatta propria dai giovani ‘graffitari’ (5) e non solo.
Ciò che fa la differenza, nel dire di molti giovani, Basquiat compreso, è di “non comprendere quale sia il problema” dal momento che operano scelte che apparentemente sembrano futili o diversamente pericolose, quali: vivere senza regole, interruzione degli studi, guardare un programma piuttosto che un altro, scegliere l’anarchia anziché impegnarsi in politica, visitare una mostra piuttosto che andare allo stadio, darsi allo sballo del sabato sera, agli sport estremi, alle corse folli in auto, all’uso di droghe ecc. che, semmai – dicono – si tratta di una sorta di plus-valore della raggiunta autonomia, il cui conseguimento, secondo certe loro necessità, concorre alla piena realizzazione del proprio essere.
Nella breve vita di Basquiat sono molteplici gli aspetti trasformativi della personalità che rendono difficile ogni tentativo di classificazione. Diverse sono infatti le cause che portano a questa difficoltà, ma è interessante esaminarle, seppure in parte, in modo da favorire la comprensione dell’individuo e dell’artista in chiave psicologica e che si basa su un principio fondamentale ben definito da Roberto Assagioli (6), per cui: “l’individuo tende a correggere gli eccessi e le deviazioni, risvegliando quegli elementi che sono opposti o complementari a quelli dominanti” del proprio sé. In cui egli ravvisa un certo potere di auto-regolazione sia della vita fisica, che di quella psicologica.
In alcuni particolari casi, tuttavia – egli aggiunge – “talvolta opera all’eccesso, producendo reazioni esagerate, o ciò che potrebbe essere chiamata iper-compensazione, per cui l’individuo ha la tendenza a sopravvalutare proprio le qualità che gli mancano”.
È forse questa la ragione per cui davanti alle opere di Basquiat viene il dubbio se definirlo ‘genio’ o ‘barbone’, o ammettere che si è di fronte all’incapacità di percepire. In poche parole non si arriva a essere certi di ciò che l’opera di Basquiat ci sta comunicando. E ciò per una defiance di comunicazione che a distanza di tempo non arriva più, o piuttosto da mettere in relazione con una certa avvenuta assuefazione, in quanto l’opera di Basquiat sembrerebbe ormai superata. Di certo non lo è per quei milioni di giovani di tutto il mondo che lo copiano o si rifanno alle sue opere ‘profetiche’, entrate nel costume e nella moda, grazie anche alla solidarietà artistica di certi critici e galleristi che hanno intravisto in lui il “genio” nascente dell’arte, procurando un punto di rottura nel sodalizio degli artisti così detti ufficiali che videro in Basquiat “lo spettro spaventoso dell’inadeguatezza”.
Ciò per quanto si preferisca leggere nelle sue opere una qualche forma d’amore per i colori e non in ultimo per la vita che, fino a prova contraria, è stata fondamentale per la sopravvivenza non solo degli artisti più o meno affermati, quanto per gli esteti dell’arte indistintamente. In ogni caso si tratta qui di voler trovare una ‘dimensione’, o forse dare un ‘senso’, a un genere d’arte, quella di Basquiat, che riconduce all’emotività, alla condizione ‘sine qua non’ di quell’ ‘auto-riconoscimento’ individuale, necessario a chiunque intraprenda l’esperienza dell’arte.
Per completare il quadro, destinato per il momento a restare senza cornice, serve stabilire una relazione più estesa, la più ampia possibile, che dalla tradizione artigianale porta all’esperienza estetica tout court dell’arte, e che consente una comunicazione più aperta e libera possibile. Ne va sottovalutata l’attuale ‘rete delle immagini’ alla cui diffusione propria dei mass-media, si accompagna generalmente l’imperativo consumistico che assegna il primato all’apparire piuttosto che all’essere, per cui: “l’individuo vale più per ciò che ha che per ciò che è”, tipico sia delle tendenze della moda e del mercato dell’auto, che dell’arte.
Ancora una volta non si tratta di uno slogan coniato per l’occasione, quanto di una constatazione di fatto sulla quale almeno si dovrebbe meditare, a sostegno di un dialogo franco con il futuro dell’arte. Il riferimento a Basquiat è evidentemente di tipo relazionale - sperimentale, lì dove l’artista va all’inseguimento di una identificazione pregnante, giocata sulla notorietà di “quelli che contano” ai quali egli si rifà, verosimilmente per combattere l’insignificanza cui può andare soggetto, con la pretesa un giorno, di divenire protagonista o restare semplice spettatore di se stesso.
Una scelta questa non poi così insolita tra gli artisti che tendono a mettere in mostra una compiaciuta rappresentazione narcisistica di sé. Di contro si ha l’abbandonarsi a una esteriorità edonistica di natura mutevole, quella adolescenziale, di per se ibrida: “... che oscilla tra la ricerca della propria identità e la proiezione di un futuro ancora incerto, mentre vive il proprio tempo presente nel segno della precarietà e della drammaticità” (7).
Il paradosso non è affatto nuovo, se già negli anni ’50 il filosofo tedesco Martin Heidegger (8) rilevava che: “Nessuna epoca ha avuto, come quella attuale, nozioni così numerose e svariate sull’uomo. Ed è anche vero, che nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo. Mai l’uomo ha assunto un aspetto così problematico come ai nostri giorni”, quando già il virus della postmodernità aveva infettato gli animi delle generazioni più giovani; quando cioè: “...la situazione emotiva apriva l’uomo al nudo fatto del suo ‘essere gettato’ nel mondo, mentre la comprensione era la proiezione attiva e ‘progetto’ e ‘interpretazione’ di qualcosa in quanto tale”.
Due facce di una stessa medaglia attribuibili da una parte alla mancanza di volontà di crescita, quindi di maturazione artistica che in Basquiat non viene mai meno dal primo dei suoi graffiti fino all’ultimo dipinto. Mentre, dall’altra, il rifiuto di una presa di coscienza di un sé che oscilla tra l’appartenere alla collettività o lo svincolarsi da essa e tornare ‘alla strada’, tra brame di ribellione e desiderio di libertà, che talvolta, come nel suo caso, degenera e si trasforma in occasione di scontro violento con la propria esistenza.
Non si può certo affermare che oggi le cose siano cambiate di molto, se non forse peggiorate, se un altro cambiamento di tipo radicale nel panorama dell’arte è alle porte. Colpa della globalizzazione? Qualche critico grida sì, per il fatto che con essa è arrivata l’assuefazione e la noia a tutto. Come dire, è venuto meno l’interesse per l’arte in generale, anche a causa delle condizioni economiche contingenti, che hanno compromesso il processo creativo da cui si delinea un cambiamento esperienziale che diede avvio ai ‘collettivi’ (9). I quali, trovavano nelle giovani generazioni il piglio di nuove esperienze creative che furono rigenerative della voglia di sperimentare e di conoscere nel suo insieme.
Date certe condizioni e le difficoltà del vivere, artisticamente parlando, delle nuove generazioni, sempre più inclini al consumismo sfrenato del “tutto subito o niente”, delle “corse contromano”, degli “inseguimenti rocamboleschi per le vie cittadine”, delle “notti sfrenate del sabato sera” e “dell’uso costante di alcol e droghe pesanti”, ecco il verificarsi di manifestazioni di profondo disagio che in certi casi tocca gli strati più nascosti dell’animo umano, giacché il rifiuto del ‘precostituito’ e del ‘preconfezionato’ equivale sempre a una mancata accettazione di se stessi, a una mancanza di rapporti adeguati con la società e con gli altri.
È lo stesso di quando si è incapaci di percepire un pericolo o quando ci si adopera, consciamente o inconsciamente ad andare oltre, nella dimensione fluttuante dove il tutto e il niente si equivalgono: “la paura della morte e la sua negazione”, chi può dirlo? Basquiat sembra aver provato già tutto, quando ancora la ‘Transavanguardia’ (10) incominciava a mostrare le sue crepe, i segni di una erosione annunciata che, dopo di lui sopraggiungerà: “...nel momento esperienziale della ragione e in quello riflessivo della critica”, con la forza di uno tsunami che sconvolse la scena artistica degli anni ‘80.
Va qui ricordato che la ‘Transavanguardia’, grazie alla sua natura anticipatoria, è stata forse l’unico movimento tutto italiano riconosciuto all'estero, proprio a partire dalla sezione “Aperto ‘80” della Biennale di Venezia (11), appunto del 1980, che vide protagonisti un quintetto di artisti: Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino, ai quali si aggiunsero Mimmo Germanà ed Ernesto Tatafiore. Una Biennale per certi aspetti degna di nota, per la partecipazione di tanti artisti qualificati. Tra i quali cito qui, Francesco Clemente (12), l’unico italiano che in quegli anni è stato protagonista di una ‘Collaboration’ pittorica con Andy Warhol e Jean-Michel Basquiat.

(continua)

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