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Perdonateci la facilità del gioco di parole ma non parla di una vita felice- né facile- questo secondo lavoro di Francesco Lorusso, quarantenne pugliese dalla parola secca, a tratti aspra ma senza sconti nella descrizione di un'epoca e di una società spossessata e desacralizzata in liturgie di consumo e di precariato dove anche il lavoratore è un invenduto di magazzino. Entro la scansione delle tre sezioni in cui il libro è diviso è ben scandita allora una perdita collettiva e personale di se stessi osservata- e riportata- tramite gli effetti dapprima di lenta decomposizione fisica prima che mentale del soggetto in rapporto al luogo del lavoro (il chiuso e l'innaturalità degli interni, lo spazio di negazione a pervadere anche il sonno in una fisicità di corpi che paiono appartenersi se non nell'ansia di scadenze) e poi, insieme, in una algida refrattarietà del paesaggio che cancellando se stesso nelle spirali di una economia alogica e subliminare (entro quella "pura corrente calma" di "una bontà che impoverisce"- di quella "dolcezza che guida al niente" verrebbe da dire con Fortini) ci restituisce la dolenza di una condizione senza più forze. Un cronico e sempre più invasivo torpore che nemmeno la parola, forse- ma solo a tratti- la rabbia, in un residuo di coscienza, prova a scuotere. Eppure è proprio questa la tragica forza del libro che si inserisce con partecipata fermezza in quella scrittura di deriva del quotidiano che parte della poesia di questi anni va dedicando a partire proprio- citando l'introduzione di Daniele Maria Pegorari- da quella "lenta agonia del soggetto dentro i meccanismi fagocitanti e alienanti del lavoro" fino ad una più allargata ed esistenziale radicalità di negazioni connesse a quelle problematiche socio-economiche (ancora Pegorari) che di fatto si vanno imponendo, come nei versi che Lorusso va a respirare sin dalle prime pagine, sopra "vite all'altezza solo dei loro disavanzi". E' un mondo allora nel racconto a cui non è concesso il sogno nella gabbia di una progettualità recisa, di identità generazionali al buio nel rendiconto a perdere coi padri. Un mondo in cui " ognuno viene inghiottito solo a tempo dovuto" nel meccanismo di una fatica che non ripaga nel fallimento delle prospettive e dove anche il dolore è racchiuso in una asettica ripetitività priva di grida (che poi è ciò che più raggela nella lettura). L'uomo, il lavoratore, si osserva perdersi in uno scardinamento biologico che nell'assuefazione per sopravvivenza, come il sole smarrito, si fa finzione nel gemito latente dei capannoni e delle macchine. Il tutto tra l'altro mantenendo sempre la coscienza del meccanismo di manipolazione cui giocoforza si va a concorrere ( "Sono solo il respiro di una convenzione", di "un prodotto senza funzioni") e che ha all'esterno, nell'uniformità di case e strade senza spirito ( o "persone nelle piazze/ in quell'ora più sana per gli incontri") quel dondolio che "non si converte in musica" ma in un "tremore senza emozione" che bene ci identifica tra le crepe di "uno stare nella pioggia continua" (l'amore stesso condiviso a piccoli bocconi "nelle luci tiepide di locali ammassati/da un gioire continuo di analgesici"). Così in questa aria continua di finta festa, di "costumi che non hanno nome" a configurare "valori senza corpo", anche la poesia, la parola ha difficoltà ad incarnarsi se non in questa evaporazioni di immagini e costruzioni non più umane dove piuttosto- ma quale?- "il vero si cela in bolo/ di oscuro verbo gentile". Eppure, pur pagando nello sforzo in cripticità, Lorusso non cede mentre "la voragine ci gorgoglia dal fondo", alzando nella parte finale l'indignazione: contro la mancanza di una trama vera e di coesione sociale, contro le responsabilità politiche e sindacali, contro gli interessi occulti- soprattutto- alimentati da un sistema di favori personali e mediatici evidenziando però, insieme, le responsabilità personali entro quella mancanza di vigilanza- e di reattività dunque per coscienza critica- che ognuno fa partecipe e in qualche caso, in qualche modo anche complice di un ingranaggio che nulla e nessuno risparmia. "E ci raccontiamo di continuo/storie di paure su parole buie/di mestieri malamente masticati/per mantenerci chiusi in casa/a consumare miseri respiri/e provare un prodotto cotto/sulla forza di una fiaba bassa": in questa onestà anche si fonda allora una scrittura e un percorso personale da seguire e che volentieri consigliamo.

 

 Franca Alaimo - 16/04/2016 17:41:00 [ leggi altri commenti di Franca Alaimo » ]

L’attenzione critica e lo spessore etico di Stefanoni ben si sposano alla poesia vigile e risentita di Lorusso che mette a nudo la perversità del meccanismo in cui ormai è precipitato l’uomo medio.
Quella perversità ancora più offensiva e immorale perché ammantata della felicità sonnolenta e acritica dell’informazione di massa, che ottunde la singolarità dell’uomo e la appiattisce in nome dell’economia. Non conosco l’autore né la sua silloge, però dalle varie citazioni che costellano l’intervento critico di Stefanoni mi sono fatta l’idea di un versificare attraversato da una forte tensione etico-estetica.

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