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Legni

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Classe 1964, umbro residente a Umbertide, Paolo Pistoletti è al suo libro d'esordio per la già preziosa, seppur recente, Giuliano Ladolfi Editore. Esordio non vergine però in quanto tastato, saggiato da una frequentazione della poesia che dal 2010 ha la sua pratica effettiva nella cura e conduzione, con lettura, di un programma ad essa dedicata presso l'emittente umbro-toscana Radio RCC. Luogo allora, il poetico, di racconto del quotidiano la cui scrittura poi si rivela principalmente nel raggio di preservazione di un centro, di una misura ancora adeguata all'umano a fronte delle maglie di un contemporaneo che procede per frammentazioni e cancellazioni. E la misura- ed è questo il miracolo, e la gioia per chi scrive- è quella della famiglia qui nucleo portante di un discorso sul mondo che non si impone ma che si guarda vivere e vive tra incompiutezze o meno generazionali e perdite di riferimento, di separazioni e riconoscimenti di direzione che sovente dicono di noi -come ogni qual volta per sostanza di verso- qualcosa in più e di diverso anche rispetto ad analisi d'altra natura (economiche o sociologiche che siano). Così se la poesia è dialettica di opposizioni in ricucitura delle distanze data per nominazione (in evocazione, in immagini a sferzarci, a rammentarci nella furia e nella dolcezza dei ritorni) l'opera di Pistoletti, in sé stessa casa per radicalità delle impalcature e delle istanze, fa della casa stessa il fulcro privilegiato delle sue osservazioni, di tempi e passaggi insieme interiori e fisici nel collante stretto con una dimensione esterna mai disgiunta ma quotidianamente dilatata in un dialogo di reciprocità e fattualità interroganti. Soprattutto, ancora, il più delle volte nel dire Pistoletti sembra prestare voce non tanto a se stesso ma alla coscienza in divenire e in raffronto del proprio insieme, padre madre figlia anziani genitori, nell'imbuto di galleggiamento e di esistente che nel contenimento al tempo stesso poi li trasfigura e li trascende. Ciò a sottolineare, in un sistema che è il punto di originalità e di forza del libro, la contemporanea appartenenza ad una domesticità e ad una fraternità più vasta, quella umana che non si può eludere ma unicamente, evangelicamente e civicamente, condividere per semplice riconoscimento di se stessi nella verticalità delle passioni. E al proposito andrebbe forse riportata per intero la prefazione con cui Marco Beck introducendoci al testo si sofferma su una sobrietà di visione che ha nella pietas il cardine di prossimità verso chi " intorno a lui soffre, fatica, ama ". Liricità di sentimenti, ed anche su questo siamo d'accordo , espressi principalmente dall'eloquenza dei volti e dei corpi cui è possibile leggere intimità e direzioni. Giacché in quanto poesia nella dimensione pensante del silenzio non può compiersi se non per fragili certezze e subitanee interrogazioni e considerazioni, lasciando poco spazio a verbalità dirette che nulla avrebbero a confermare se non le inappropriatezze di un'epoca in stallo. Distonia dunque tra le proprie inadeguatezze (di parola, di sostanza) e i luoghi a cui si resta sospesi nel tentativo dell'appiglio ben dilatata entro "l'immaterialità di atmosfere, stati d'animo, sensazioni, riflessioni" (ancora Beck) in cui il materiale ligneo nel suo tessuto fa da conduttore in una simbologia vitale che dal casalingo degli spazi si allarga a quello stesso dell'uomo (fino allo struggente paragone del padre nel momento della scomparsa a un bosco a riprendere "la via/ dalla luce che non si vede"). Specchio questo soprattutto dato da due testi iniziali: "Legno di casa" e "Legni", appunto, come dal titolo. Al primo infatti, all'osservazione della forza e della fragilità della casa (sull'età e l'esistenza che oltre noi, nonostante noi, vi scorre) fa da riflesso dal reparto di rianimazione di un ospedale la vita che comunque si moltiplica nelle stagioni della morti che si susseguono. Questa, nella vastità di un tutto che sempre a un qualcos'altro ci richiama, sembra essere "il midollo della luce" che sostiene, nell'onda immensa "forse quello che non si vede" ed in cui lo stesso male pur presente sembra perdere peso nella fluidità azzerante della distesa. Mistero a cui Pistoletti sempre si riferisce tra affacci sovrastanti e piccole metafisiche di interni (in descrizioni che per alcuni passaggi ci ricordano qualcosa di Wallace Stevens ed Edward Hopper) in un intreccio di reciproca percorrenza sovente riportata da meditazioni dell'autore alla guida dell'auto, come a metà strada e nella metafora di un mondo osservato dallo specchietto dove si passa verso l'orizzonte di senso (i propri affetti, le mura care) di "quell'unico punto che conta". Punto la cui chiarezza e profondità di radice, "come l'acqua,/ come la fiamma di questo castagno sul massello della panca", è centrale ai suoi interpreti, la moglie e la figlia forse più dell'uomo del quale rappresentano nelle proiezioni il patto di un cerchio di resistenza al vuoto, di spremitura di "tutto il buio" dai"grappoli di giorni neri" ("Imbronciata", "Vigna") nell'esattezza di un'incarnazione alla misura della trasparenza del vetro, della finestra di là verso l'esterno, superficie a cui vincersi, a cui riemergere come dai cattivi sogni dalle paure dei nostri doppi . Il percorso della coppia così ha proprio in questo la sua forza esemplare, il suo paradigma; tra costruzioni e ferite, tra presagi e scomparse, l'esserci a testimoniare in comunione sempre, come direbbe Beck, nell'amore e nei fatti i nascosti nuclei di verità dell'esistenza. Verità di corpi "che stanno nelle cose" e di anime tese verso qualcuno che aspetta, nel sostegno allargato che unicamente può compierci in dignità di pienezza a fronte di un dettato cui la parola (e non solo quella poetica) sfugge e a cui poter essere uniti solo nell'attraversamento. "Essere uno con quel campo fino all'ultimo giunco/ nel non ancora della terra", ci dice infatti in "Campo", nella consapevolezza che non da soli, nel passo, è il prender conto di se stessi dapprima e poi anche degli altri nell'appartenenza a quel medesimo destino che in "Reti" ha la bella immagine di pescherecci che attendono di tirar su le reti e di esser tratti fuori dal quadro stesso che questa immagine contiene ("come quando un'onda di dolore/ ci fa superare una soglia"). Sorte che all'altro, a ogni altro, in qualche modo ci unisce e fa responsabili invitandoci ad andare oltre la virtualità delle notizie e delle immagini (vedi "Dentro" con i riferimenti alla morte di un bambino nel rogo di un campo nomadi ed alla foto di un barcone di immigrati"carico/con le spalle girate la sorte verso il futuro") giacché nella confusione di tempi in cui le stesse certezze non consolano, nella sofferenza per reciproca recriminazione nei rapporti, lo smorzarsi cristianamente al mondo, il cedere nell'incedere comune è salvifico ed un morire piuttosto il suo contrario: "fiore/che petalo dopo petalo si spegne".

 

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