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E’ una poesia dolcissima quella di Valerio Mello, giovane siciliano trapiantato a Milano. Dolcissima perché poesia dell’appartenenza e della fedeltà alle cose, agli elementi ma soprattutto al mondo da cui mai si disgiunge nel perseguimento delle sue ferite e delle sue rivelazioni. Ed è un itinerario questo che ci viene incontro nella sacralità di due percorsi che convergono: quella dentro di sé, per spoliazione e offerta ad una realtà adottante e adottata e quella tra le maglie, appunto, di una metropoli fagocitata dalle sue tante implosioni in un dialogo di nuove e reciproche origini. Così è soprattutto un dettato di tempi interiori a scandire il flusso degli scambi e dei contrasti in una tonalità di sguardi e di incroci in cui, nemmeno tanto curiosamente, tra tanto rumore e sferragliare di uomini, è il silenzio ad imporsi per trasfigurazione nella sua evidenza di parola. Il merito, allora, è tutto nella nudità di fatica che Mello monacamente persegue (forse perché costretto, forse perché l’unica via possibile) nel rigore antico di un convivere poetico che sa nello scollamento delle forme (qualsiasi esse siano) l’onda trascendente e riformante delle cose. Ciò che personalmente colpisce di questa scrittura, che pure nella sue magnifiche esattezze sconta più di una volta piccole e grandi sbavature, è il tono profondo di chi (non perseguendo proprie scelte) dalla terra stessa appare chiamato alla sua pronuncia (vocato dunque come a chi scrive molto raramente è capitato di incontrare). L’uomo Mello, infatti, non si interroga ma si mette dolorosamente a disposizione, piccola circolare cittadina che dalle monumentalità della storia e dall’imponenza delle nuove architetture fissa, a rovescio, a partire anche da piccolissime screpolature, da infinitesimi oggetti dimenticati, lo smottamento delle impalcature e degli scheletri di una condizione che oltre la propria degradazione non dice e non può. Scrittura dello scavo, ancora, verrebbe da evidenziare e non solo per l’ovvio lavoro di parola ma anche per l’affettività del proprio tronco al rimestare quotidiano dei cantieri e delle gru nel quale riconosce il medesimo sforzo di sollevamento (“crescere per balconate,/ disfarsi del fango di sepoltura”). Lo aiuta in questo caso un uso dell’occhio a uncino, come suggerisce Alessandro Quasimodo nella prefazione e con il quale siamo d’accordo soprattutto quando parla di concretezza fisica del percorso. Concretezza che, sempre a dirla con Quasimodo, muove fin dal titolo a raggiungere dalle profondità snodi e fondamenti del quotidiano comune trasformandoli “in cifre dell’esistenza umana” che dagli slarghi ai luoghi di grande affollamento , dai viaggi in treno alle periferie ( esemplare in tal senso il titolo della prima sezione. “Milano interna, città esterna”) son detti tramite rivelazioni che non possono non venire dall’ “adagiarsi sui tratti”, dal “calpestare i tratti” rivelando al contempo, come già espresso, grande intelligenza di visione e consapevolezza della propria stessa esistenza a partire dalla commistione con l’esterno (“Al di là degli occhi esisto”). Ed è da questa coscienza il germoglio di una poesia che si costruisce impastandosi dei dettagli minimi che compiono la realtà in un nutrimento necessario e sempre reciproco che la rivela (si leggano al proposito gli ultimi versi di “Fioritura”) e che si fanno strumento di rottura dell’idea, che vale per ognuno di noi, “di essere solo un concetto”. Chiave questa da cui muovere per meglio comprendere le istanze di respiro di queste pagine nello scarto e nella reticenza a cui questo tempo ci relega e che solo apparentemente il nostro sembra assecondare, in verità nelle salite e nelle discese che non lo nascondono al “fitto abisso interno” accettando piuttosto di sentirsi vivo nel non sentirsi umano. L’accadere poetico che nel progredire ingemma il discorso deriva infatti da questo procedimento: la misura nel “chiarore del dubbio” si abbandona alla trasparenza dell’oggetto, alla medesima ventura della natura, al suo dire di , senza corteccia di cui vuole però essere portatore d’acqua. A questo punto però è necessaria una piccola digressione perché la reminiscenza, nel crinale di luce dell’offerta, ci appare provenire piuttosto dall’impronta di sole e spazio aperto dell’infanzia che lo reclama dai rigurgiti sempre ben custodendolo comunque nel segno dell’ abbraccio con la nuova terra e che fin dal mattino, “senza aspettare la sera”, a volte è già felicità nella tensione di grazia degli elementi nel tutto del loro pianto (nel vivo credo “del suo soffitto di voci leggere”) a fronte delle urbane degradazioni del moderno. L’attaccamento a questa sorta di religione del verso si fa più insistente perciò dove la luce offesa tende a dilatarsi maggiormente, dove l’osservazione poetica si fa officina (nel termine stesso usato da Mello riaffiorando in noi le memorie della rivista omonima di Leonetti, Roversi e Pasolini) punto a punto nel compimento delle corrispondenze, nell’ “inverso percorso/ del richiamo” dove risiede “la radice del giorno”. Eppure insistiamo , ed è questa forse la forza del libro, a Mello non interessano risposte, non ha alcun orizzonte da proporre semmai al contrario mostrare perfino dove lo stesso verso rischia di essere come un “verme” senza direzioni nella contaminazione e il macello di cui si nutre. D’altronde, sembra dirci e qui il discorso si alza, la poesia svelandosi come “ragione di una pluralità in disparte”, andando a leggere e nominare uno per uno i suoi elementi dove il “chiedere è debole” non può che sciogliersi in modulazioni di voci a ricordare nella tensione “il creato” e a “tornare dal cancellato”, come gli stessi poeti del cimitero monumentale suggeriscono nel testo dedicato a Salvatore Quasimodo . Perché la misericordia e il bene poesia resta nella vicinanza silente al possibile vivere dell’uomo, dove la sua pazienza nella severità della prova rende quella prova e la vita stessa più vera. Verità che come nelle mosche, a cui è dedicata la seconda e conclusiva sezione, è nella visione della sacralità del niente che ogni cosa è, ognuno è, nel suo destino di larva tra la quotidiana aspirazione a liberarsi oltre le finestre “dal ricordo delle zolle” e il buio terminale della ragnatela. Nella condivisione del rischio e del “vuoto ad ogni gradino”, venendoci qui in soccorso Montale, la sorte e la bellezza di questo antico daimon chiamato poesia che Valerio ben pronuncia e ricorda in uno dei più bei testi del libro (“Lampione”) nella sospensione che vige sempre tra primo e secondo verso e l’abbandono confidente della rispondenza nel timore della caduta dove solo può avere origine il riflesso di luce della parti. Con questa lezione, nonostante (o forse a maggior ragione) la dolente malinconia nell’accettazione della vita per ciò che esattamente è (senza mai però sfociare in rassegnazione), concludiamo consigliando questo testo di un giovane autore che ci ricorda quasi il dovere dell’innamoramento e della dedizione al mondo.

 

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