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Opera prima questa della Felicetti uscita dalle selezioni del premio “Libri di-versi in diversi libri” che ben rispecchia nell’acerbità del verso l’impronta primaria degli autori che hanno partecipato al concorso. E cioè, quel riuscire d’ognuno “nell’opera di svelare il suo sentire agli altri e, soprattutto, a se stesso”- come in appendice suggerisce il presidente della giuria Salvatore Di Pietro- e che tra queste pagine in una forma quasi diaristica si fa catarsi di una esistenza ferita tra desideri di pienezza e sue disillusioni. Sono poesie, allora, il cui aggettivo vero è dato dall’autrice nella premessa, quel “salutare” al proprio vivere quotidiano, per rabbia ed emozioni trattenute, al contrario qui direttamente espresse nella contrapposizione delle più intime e viscerali rimostranze a fronte di una realtà percepita violenta e in perdita d’amore. Il ritratto, o per meglio dire l’autoritratto che ne esce è quello di una adolescente prima e di una donna adesso in una disputa d’anime ora in avanzamento ora ferme ma sempre sul bordo limaccioso di antiche cadute e presenti paure. C’è qualcosa che stenta ad uscire, infatti, e ove avviene è spesso nel segno di un’inceppata e non perfettamente compiuta gioia, una malinconia di fondo che non libera dall’equivoco forse di in mistero di sé tutto celato tra concrete discrasie del mondo e personali, seppure involontarie, oscure e condizionanti diffidenze. Questo in una appena accennata e certo non esaustiva sintesi giacché la luce che comunque ne fuoriesce- e non è poca- è quella di un’esile figura innamorata e ricca per grazia e ricerca d’incanto che nell’umiltà della voce si tenta in una, seppur piccola, nota in grado di ridare nella verità dell’evocazione un qualche ritorno d’equilibrio nello smarrimento delle certezze. Formula lodevole e continua che già in germe ritroviamo nei testi adolescenziali che accompagnano la prima parte della raccolta fino ad imporsi nel proseguo dai versi relativi al sociale a quelli che investono i sui rapporti d’amore con gli uomini ma di cui si sconta per larghi tratti il fallimento per incapacità di scrittura di svincolarsi da un parlato che poco ha di poetico, il poetico in quanto lingua altra del mondo sovente assente per mancanza di veglia e di strumenti. Gli inceppamenti sopra accennati, dunque, si spiegano così poiché anche nella resa verbale a dominare è sempre un eccesso della coscienza che non consente alla parola di autenticarsi con sicurezza nel riflesso di senso che in forma ed immagine si compie- e ci compie- nutrendoci e rivelandoci. La pecca, in sostanza, è nel non dare al proprio verso quella necessaria, e personale, ed effettiva distanza anche da sé atta a renderla chiaramente identificabile per interrogazione e scioglimento del dettato. Il rischio in questi casi è sempre l’omologazione con se stessi che invece di liberare costringe e deforma nelle ripetizioni senza uscita delle istanze non chiarite. Eppure Nadia ne ha di cose da dire tra intuizioni di memoria e franchezze quotidiane da cui non rifugge grazie a uno spirito che mai si svilisce in valori che non riconosce richiamandosi piuttosto a una cura e attenzione del mondo fatta di caparbietà e dolcezza, di consapevolezza del grado di vita che anche il dettaglio sigilla nella comunione che ci comporta. Forza, e fede, d’amore non a caso ben coniugata nel testo meglio riuscito per capacità di osservazione e rappresentazione, per compassione e indicazione d’esempio. Parliamo di “Due foglie”, brano che invitando ad andare oltre l’immagine dell’albero che inizialmente si impone, si sofferma sulla diversità e le dinamiche di sofferenza e pazienza che legano le foglie tra loro nell’alternanza delle giornate e delle stagioni. Condizione, pare suggerirci, simile alla nostra come nella bella immagine delle due nascoste che barcollando, labili sul limite, danno anch’esse “voce all’insieme”. Senza di loro infatti non avrebbe anima l’albero così come il mondo senza ognuno di noi (“si sfiorano appena e subito rientrano nel/ loro spazio predestinato”). Ed è dunque questo il richiamo vero che spinge il libro: il riconoscimento di dignità di vita e amore impresso in ciascuno nel contrasto di una realtà che quotidianamente tale dignità calpesta e nega. Di qui a seguire la denuncia del ruolo di prima vittima che ancora la donna subisce a conferma di possessi e di radici (vedi “Essere donna” appunto) difficili da recidere e da riapprendere nella sanità di un rapporto a due fatto di dialogo e sostegno, osservazione, il maschio stesso prigioniero di sé (“le tue mani tremano ed il mio corpo/non fluisce nelle tue paure”- “Io sono qui”). La medesima attenzione quindi, ci sembra di poter affermare a conclusione, andrebbe curata da parte della Felicetti per un’ adeguata e maggiore resa della propria parola fin qui spesso dispersa a scapito di un sentire posto a scavo di un’era e di un sé che non si comprende e che non ci comprende. Le chiavi sono nell’umiltà e nella determinazione, doti che in queste pagine si stagliano preziose.

 

 Nadia Felicetti - 21/10/2014 18:58:00 [ leggi altri commenti di Nadia Felicetti » ]

Grazie mille, molto ben analizzato....mi sono commossa!...è una sensazione sconvolgente essere recensiti così...grazie ancora

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