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Novelle anni ’60. I. Adolescenza

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Il sole era tramontato da poco e l'aria si stava facendo più fresca. Le madri si alzavano dalle panchine e si avviavano verso casa, spingendo le carrozzine e chiamando i bambini. Nell'aria tranquilla si incrociavano richiami e saluti. Dentro le fronde dei grandi alberi del parco era tutto un frullare di passeri in cerca delle migliori sistemazioni per la notte.
Nella 'valletta dei cani' un gruppo di ragazzi stava giocando a 'guardie e ladri'. In quel periodo dell'anno, dopo la chiusura delle scuole, finalmente liberi dai compiti a casa, si ritrovavano a Villa Borghese quasi ogni pomeriggio. Avevano scelto come terreno di gioco una valletta erbosa chiusa da due opposti pendii e ombreggiata da grandi platani centenari, che prendeva il suo nome corrente dal tacito accordo per cui lì si radunavano i padroni di cani coi loro animali. Il gruppo era composto di ragazzi fra i dodici e i quindici anni. Tutti ragazzi? C'era quella ragazza, è vero, fra loro, ma era poi una ragazza? Non era facile distinguerla dai compagni di gioco a vederla correre sul prato, la più violenta, la più veloce, la più accanita nel gioco: aveva capelli tagliati cortissimi ed era vestita come tutti gli altri di un paio di logori pantaloni e una maglietta. I maschi l'avevano accettata come uno di loro dopo aver constatato che era in grado di battere molti nella corsa o a braccio di ferro, che sapeva arrampicarsi fino alla cima del platano più alto, che osava saltare di slancio una panchina di quelle con la spalliera, che coglieva le ortiche a mani nude e le stringeva nel pugno sorridendo.
Quella sera, mentre le madri coi bambini lasciavano a poco a poco la villa e una frescura umida saliva dall'erba, la ragazza era intenta a sfuggire a un accanito inseguitore cercando al tempo stesso di liberare un compagno prigioniero, che se ne stava tristemente appoggiato all'albero 'tana' con la sentinella a tre passi di distanza. La si vedeva correva leggera descrivendo ampi cerchi sul prato. Ecco, pareva quasi che l'inseguitore stesse per raggiungerla; ma lei lo schivava con uno scarto improvviso e raccogliendo tutte le sue forze si gettava a corsa velocissima verso il prigioniero. Un altro 'ladro' era sbucato da dietro un albero e stava correndo verso la sentinella distraendone l'attenzione. «Attento, Pietro, attento!» gridò l'inseguitore, ma troppo tardi: già il prigioniero tendeva la mano verso di lei, che la sfiorava con le dita, e correvano via liberi entrambi.
Quando si sentì a distanza di sicurezza la 'ladra' si fermò ansante accanto a un albero. Vide che anche le due 'guardie' si erano fermate e tenevano conciliabolo. Con un gesto rapido si asciugò il sudore dal volto e mandò indietro dalla fronte un ciuffo di capelli. Udiva i battiti violenti del cuore. Respirò profondamente e levò il capo a guardare il cielo, che nell'ultimo chiarore del giorno che finiva era diventato di un colore quasi verde, su cui spiccavano i toni rosa di due nuvolette sfrangiate.
Pietro veniva su. Si preparò a fuggire. «Pace, pace!» gridò lui, «Debbo andare a casa». Si riunirono insieme e si avviarono all'uscita. Discutevano le vicende del gioco recente. Il cielo era ancora chiaro, ma sotto gli alberi del parco si addensavano le ombre ed era quasi notte. I passeri si erano quietati. Nella villa non c'era più nessuno e fuori si erano già accesi i lampioni. Giunti al cancello si salutarono. «Ciao». «Ciao, Pietro». «Vieni domani?». «No» disse la ragazza. «E perché?» chiese vivacemente Pietro, «Domani è sicuramente bel tempo». «Ed è sabato e non c'è nemmeno da fare i compiti» aggiunse Francesco. «No» disse la ragazza, «Domani vado a una festa». «Vai a ballare? Tu?». «Non ridete» disse lei arrossendo.
Si salutarono di nuovo e si dispersero. La ragazza si diresse verso casa. Non avevano riso per fortuna. Ma si vergognava lo stesso maledettamente. Aveva paura di quella festa: meglio non andarci e giocare a guardie e ladri cogli altri. Perché aveva accettato quell'invito? Era una settimana che vi girava intorno col pensiero e spesso, in un impeto di fiera ribellione, decideva fermamente di non andare. Le sembrava una resa, una rinuncia a tutto quello che era stata finora, a tutto quello che più le piaceva: arrampicarsi sugli alberi, lanciarsi in corse selvagge, giocare a guardie e ladri. Non voleva cambiare. Ma era il suo stesso corpo ad essere cambiato. Da un po' di tempo teneva spesso un braccio ripiegato sul petto per nascondere due acerbi rilievi un po' dolenti che stavano diventando evidenti sotto la maglietta. Un giorno con suo grande spavento aveva visto del sangue. Aveva creduto di essersi fatta male andando in bicicletta con uno scossone su un terreno un po' dissestato. Aveva atteso un giorno intero che il sangue si fermasse, poi era stata costretta a confidarsi con la mamma. Ora sapeva di che si trattava, ma le sembrava un sopruso. Il giorno dopo averne parlato con sua madre, tornando a casa da scuola aveva trovato in cucina la nonna e la Franca, la donna che veniva a fare le pulizie, sedute al tavolo dal ripiano di marmo a bersi insieme un goccetto di vino, come facevano spesso verso la fine della mattinata. L'avevano accolta con una strana aria un po' furbesca, con mezzi sorrisini e allusioni oscure, e avevano alzato il bicchiere verso di lei brindando a qualcosa che lei non capiva.
Le sue compagne di scuola portavano già tutte le calze e le gonne strette. Solo lei, favorita in ciò dalla statura non alta e dalla figurina esile che la facevano sembrare ancora bambina, continuava a vestire con gonne a pieghe e calzini corti di cotone. Le compagne la prendevano un po' in giro e lei aveva la fastidiosa sensazione di essere diversa, ma cedere su quel punto e vestirsi 'da grande' le sarebbe sembrato un tradire se stessa. Tuttavia negli ultimi tempi si sorprendeva a guardarsi più spesso allo specchio e a desiderare un vestito o un golfetto visti in una vetrina. Per il suo compleanno la nonna le aveva dato dei soldi perché li spendesse come le pareva e lei si era comprato un grazioso paio di scarpe coi tacchi e il suo primo paio di calze. Ma quanto aveva sofferto ed esitato prima di decidersi, quante volte aveva cambiato idea e pensato di comprarsi un libro come gli altri anni!
Mise quelle scarpe e le calze il giorno dopo e indossò il nuovo tailleur rosso che la sarta le aveva ricavato da un cappotto smesso della madre. C'era poca stoffa e perciò la sarta le aveva cucito una gonna dritta. La sua prima gonna stretta. Ora si contemplava stupita nello specchio e quasi non si riconosceva. Desiderò gettar via quei vestiti e quelle scarpe che la impacciavano, indossare di nuovo calzoni, maglietta e le vecchie e sdrucite scarpe da tennis e correre a giocare a Villa Borghese coi suoi compagni. Alla festa si sarebbe certamente annoiata, pensò ancora una volta. Poi tornò a guardarsi e non poté fare a meno di sorridersi perché si vide graziosa nell'abitino attillato, le scarpette col tacco e le calze che sottolineavano lo slancio delle gambe snelle, i grandi occhi scuri sotto i riccioli chiari. Si strappò bruscamente dallo specchio arrabbiandosi con se stessa, infilò la porta gridando un saluto alla madre e corse giù per le scale.
Tornata a casa quella sera disse di non aver voglia di cenare e se ne andò nella sua stanza. Attraverso i vetri della finestra si vedeva galleggiare sopra i tetti delle case una luna quasi piena sorta da poco, che sembrava enorme. Non accese la luce, spalancò la finestra e restò lì nel vestito leggero, lasciando che l'aria fresca le penetrasse deliziosamente nel corpo. La luce lunare destava le case addormentate e la strada solitaria e le trasformava facendole sembrare nuove e diverse. Sollevò lo sguardo al cielo: nel gran chiarore le stelle erano quasi tutte invisibili, tuttavia non lontano dalla luna ne splendeva una grande e luminosa, forse Espero. Era così felice, senza sapere perché, che avrebbe voluto gridare la sua gioia.
Si spogliò rapidamente al lume di luna che entrava dalla finestra, indossò il pigiama e si infilò sotto le coperte con un piccolo brivido al contatto col freddo delle lenzuola. Non aveva voglia di accendere la luce e leggere prima di addormentarsi. Aveva bisogno di pensare, di mettere ordine in un turbinio confuso di pensieri e sentimenti. Chiuse gli occhi e subito le si riaffollarono nella mente le immagini della festa. Si mise a ripensare ogni particolare di quanto aveva appena vissuto: la sua paura, la timidezza, la lunga attesa nel salottino addobbato perché era arrivata mezz'ora prima degli altri, il primo ragazzo che l'aveva invitata a ballare e a cui aveva confessato arrossendo che quella era la sua prima festa, e poi, via via che la festa si scaldava, le risa, le chiacchiere, lo scatenarsi cogli altri in uno sfrenato ballo campagnolo chiamato la raspa...
Il gatto balzò sul letto con un breve miagolio. Lo fece entrare sotto le coperte e cominciò a solleticargli la gola provocando in risposta un soddisfatto e sonoro ron-ron. Allora le tornarono i pensieri di prima, tutti i suoi sogni e fantasticherie di bambina, il suo amore per gli animali, il suo desiderio di vivere in una foresta e avere gli animali selvatici per amici. Cosa le stava accadendo? Sarebbe cambiata tanto da giungere a odiare ciò che prima amava? Avrebbe smesso di correre, di giocare a guardie e ladri, di arrampicarsi sugli alberi? No, questo non era possibile. A poco a poco scivolava nel sonno. I suoi pensieri cominciavano a farsi confusi e le pareva di nuovo di ballare la raspa, di girare vorticosamente al braccio del suo cavaliere, sempre più in fretta, sempre più in fretta....
Il gatto ronfava tranquillo e dalla finestra dimenticata aperta la luna penetrava a fiotti nella cameretta addormentata illuminandola tutta del suo mite, strano chiarore.

(Da un originale datato 16-24 febbraio 1964, rivisto il 10-14 dicembre 2003)

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