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Di volo e di lava

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Tenace e alta conferma in progressione, come nei suoi inseguimenti di parola, ci pare la migliore definizione del lavoro di scrittura della Papa Ruggiero dopo la lettura di questa ultima fatica appena uscita per la puntoacapo Editrice. Avevamo chiuso, infatti, nella scorsa primavera la nota a “Passaggi di confine” intrecciati ad una tensione linguistica vivacemente attiva, mai chiusa, ai segnali di un divenire rimestante e interrogante nel cui nume è possibile leggere la forza - e la fede - di un’epifania sempre al limite tra inceppi visivi e scarti semantici. Giacché la fertilità di questa poesia nasce dagli affondi nelle opacità e nelle incrostazioni evocative di quell’unicuum vitale, insieme di lettera e terra nelle cui agglomerate dialettiche sono iscritte memorie e infanzie già presenti, già nel raggio di derivazioni e affermazioni possibili. Storia, e scorie, da cui risalire nella consapevolezza delle mutazioni, nell’osservazione puntualmente di nuovo indagante e riflettente dentro l’ invaso paziente di un io a suo modo orante, e arante là dove il mistero del nostro respiro scorporandosi preannuncia sue nuove origini. Dinamica di discesa per raccolta di luce i cui bagliori nelle pratiche sotterranee ritroviamo magnificamente dispiegati entro le viscere di questo originale e potente poemetto. Il luogo qui, “reale e metafora esistenziale” come ricordato nella nota prima del testo, è quello della Latomia di Siracusa detta dei Cappuccini. Un luogo carico di storia naturale ed umana di “straordinaria forza suggestiva”, come segnala Giancarlo Pontiggia nella presentazione: cave calcaree da cui furono ricavate le pietre per l’edificazione della città ma anche luogo di segregazione e di morte degli Ateniesi catturati durante la guerra del Peloponneso. Un luogo nelle cui intersezioni carsiche, nei cui meandri arborei, la donna e l’autrice si sanno incise in qualcosa di oscuro che insieme le trascende e le supera; “cripte cieche della terra”, “vie sacre” che solo a presenze animali, ad uccelli spetta misurare dentro quell’oscuro scherzo in cui, volta per volta, “l’uscita si ritrae” prendendo “una direzione acuta”. “Taglio verticale”, allora, tra grotta e cielo nelle cui cadenze è racchiusa l’aspirazione a una lavacro quasi iniziatico in cui finalmente aderire a se stesse proprio da dentro quel corpo del dolore che, levigato e vinto, permette nell’incontro il vivere nella rinominazione delle dimore e del tempo (“e si è nonostante/solo/ciò che si lascia/lo scarto/di una ragione in più/ che si dimentica”- nella prefigurazione di un passo iniziale). E’ evidente qui, allora, anche un discorso sul femminile, del femminile, pure per una sessualità continuamente riferente che risale e si investiga in questo teatro minerale le cui impervietà , le cui voci ed odori - e duplicità di muffe perfino- sono liberate tutte da questa “botola fossile” così coraggiosamente scoperchiata, la cui distensione al termine è però- per amore ed omaggio- mirabilmente graffiata dagli spasmi di cinque grandi poetesse del novecento dal destino infausto (Amelia Rosselli, Sylvia Plath, Marina Cvetaeva, Antonia Pozzi, Ingeborg Bachmann). Tutto ciò a conferma, come dicevamo, di una poesia autentica per l’altissimo grado di apparentamento alla terra e alle sue rimemorazioni, alle sue mutazioni dal buio di una vitalità che preme incalzando nell’ urgenza delle affermazioni. Ma soprattutto una poesia non facile, che non fa sconti nella misura della sua lingua e dei suoi attraversamenti. E da cui viene da dire: meno male.. Perché la poesia deve imbarazzare , non recedere, e coinvolgere in un percorso che venendo e affondando nell’umano non ha strade libere, aperte, chiare ma sentieri irti di rovi, di vani ricongiungimenti anche in cui però sono iscritte quelle costellazioni che dal fondo fanno capo ad una speranza- e ad una luce- finalmente non offesa. Che mi sembra nel senso pieno di questo volo, di questa lava (la “freccia/ tremenda/ che nessuno scaglia” ?) che personalmente ho apprezzato inizialmente per due modalità affini: la celebrazione dei luoghi dando loro in qualche modo parola e il riferimento, nel dialogo, ad autori che ci hanno preceduto. Forza di lingua, appunto, puntuale, decisa, sicura nella decriptazione delle incisioni; sempre lucidamente consapevole dell’ “oscurità insondata/ che resta inconoscibile” nei labirintici riflessi che ci disfano e ricompongono. Sapienza dalla Papa Ruggiero per fede smossa e carezzata in queste latomie grazie soprattutto a una corporeità fortissima che procede ed avanza, rilasciando e appunto scartando, in quell’orizzonte di sé che ha nell’immagine della spina di mirto la sua più riuscita espressione e ad ergersi poi (vedi pagine 57-58) in tutta fierezza di nudità detersa, e compiutamente nitida, quasi benedetta dalla volta e dall’orsa. Qui ci fermiamo anche se la complessità del testo richiederebbe di più nel rilancio di versi che dicono al meglio l’impronta di un’autrice sempre vigile:“ Spalanca il buio/la reazione a catena/di cifre tossiche/ esplose sottolingua”.

 

 

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