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Adolescenza

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Ci siamo già occupati della collana di Arte-Poesia “Coincidenze” curata da Mario Fresa per Le Edizioni L’Arca Felice in cui nei testi al percorso in versi sono accompagnati gli interventi visivi dei vari autori. Edizioni preziose e ben corredate che si confermano in questo smilzo libricino di Massimo Dagnino, sicuro poeta e pittore in cui ritroviamo appieno quel disagio dell’uomo nel suo rapporto con le cose e il mondo esterno sottolineato da Maurizio Cucchi nell’introduzione e al cui interno solo una resistenza o, per contraddizione, una remissione d’attrito pare a tratti la sola incisione possibile. Così, emblematica di questa separazione e ben dilatata, è la figura adolescente alla base della narrazione la cui irretita emozionalità, fin dal primo testo, muove in sospensione tra idiosincrasie corporali e mentali ed un osservazione ferma al legame di corpi e ombre nella massa dentro e fuori e lo sfondo. Sfondo impresso su lastra dentro non-luoghi (senza paura d’abusare della definizione cara ad Augè), o luoghi terzi forse nell’intersezione dei passaggi tra folgorazioni di retina e fisicità di campo, tra postazioni in divenire e svanire ed ansie personali. Carte topografiche e mentali che lo stesso Dagnino registra confondersi in corrispondenza o deviazione di quella realtà via via sempre più magmatica, sempre più sfuggente composta nel quotidiano di campi d’allenamento, scuola, stazioni e sale d’aspetto ed una natura quasi in controcanto a rivelarsi salda fin nei suoi dettagli e frammenti di scorza, seppure all’umano a volte anch’essa ancora oscura e inconoscibile. Esemplificativo in tal senso, soprattutto nel seno di un’età contraddittoria- mai certa, mai davvero doma a se stessa procedendo per disavanzi “nell’ipertensione dello scenario”- è la terza composizione (come le altre senza titolo) in cui, nello scarto tra “primordiale occhio” e algide occlusione vegetali, la figura del sogno viene progressivamente smentita in compresenze di tormento. Così, vedremo, nella densità dei giorni e degli insabbiamenti temporali, resta la notte a verificare ritrosie e desideri, forze e inadeguatezze nelle tradotte posture del sonno. Ma ovviamente a Dagnino non interessa raccontare conferme quanto riportare in una lingua carica, esatta, perfettamente essenziale e funzionale al suo dettato, tracce e forme di una disaderenza nelle cui ambiguità e nelle cui distonie il reale può sorprenderci e perderci fino ad un buio che “non si cura del senso d’appartenenza” e che- come suggerito dalla penetrante immagine di uno degli ultimi testi- “violentissimo” può espellerci come convogli. Puntualità di lingua, dicevamo, in cui lo stesso criptico sforzo talora ritornante si rivela nella sostanza l’efficace riflesso di un crescere e divenire instabile che nella rispondenza sovente procede per enigmi, o per squarci improvvisi, balugini in cui volti, case e stati di natura si spiegano in modo non ordinario. Condizione non solo adolescenziale ci suggerisce evidentemente Dagnino, in un’indagine quasi chirurgica le cui ferite guarire non può ma solo segnalare (come nella tavola in matita su carta “Anatomopaesaggio”) come sintomo di una decostruzione del contemporaneo le cui deformazioni, i cui smottamenti dominano qui nell’alveo di un silenzio continuo, di un gelo atmosferico nel nord del paesaggio, a rimarcare al meglio negli appannamenti d’impronta piccole e irrisolte liturgie personali. Un mondo il nostro, a dirlo con la forza degli ultimi versi, “Inerte” dunque, che “Non cresce mai,/ Esiste costretto in una/ Stupefacente visione frontale”. Visione che l’artista genovese sostiene e conferma nei tre disegni acclusi in un percorso personale rigoroso e incisivo.

 

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