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Piantate tutto

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Sì: “Piantate tutto”. E’ l’invito scandito con forza, con sarcasmo ma anche con malinconica dolenza che si leva da queste pagine intrise di rabbia e di bruciante mestizia per un mondo unito da una globalizzazione di rovina; scarnito, divorato, offeso da processi economici e politici deviati, senza controllo nella macina di una produzione che nella crisi provocata da suoi stessi circuiti va ad alimentare all’infinito se stessa senz’altro profitto che la caduta e la cancellazione degli uomini e degli oggetti di cui si serve: il precariato, la morte quasi programmata e poi rigettata degli operai come nel dramma della Thissen in cui si spengono anche le ultime utopie, i tanti suicidi dei pensionati, sono infatti solo alcuni dei segni della avanzante Apocalisse qui adombrata . Ed allora non ne ha per nessuno Pasko Simone (in quel nome quasi da battaglia): dai mangiafuoco della politica, ai tecnici di una bassa economia da fine Impero, dagli ingessati, cerei operatori di borsa, alle eminenze nemmeno tante grigie di un clero avido e ruminante (nelle cui immagini la Deità finisce con l’apparire come una Deità nera che al pari di un usuraio è pronto al riscattare al meglio le proprie compravendite), agli acritici esecutori servili e cerimoniosi dei dettami imposti che insieme hanno contribuito  a far regredire spirito e dignità umana fino ai primordi delle divisioni in tribù (come in “Mutazione antropologica”). C’è un passaggio, giustappunto in “Produttori”, che rivela e spiega appieno tutto questo: ” perché per qualcuno più che per altri/ il denaro viene al mondo/ con una gran voglia di sangue/ in piena faccia”. Sangue e carne che viene così bevuto, divelto nelle pieghe di una Storia come sempre divisa tra chi la impone e chi la subisce nel recinto drogato delle proprie piccole liturgie in una contemporaneità di guerre democraticamente perpetuate e videocrazie e informatizzazioni silenziosamente  e scientificamente antropofaghe (anche se nell’era digitale il controllo può anche rovesciarsi- in “Generazione-no future” avvertendo). Il discorso di Simone ruota dunque, nella vigilanza, allo smascheramento (come nella poesia omonima) di questo mondo nuovo con tanta demagogia iniettato nei ribaltamenti di un tempo che non ha più nulla d’umano, l’umano sempre più macchina a disposizione del proprio auto-inghiottimento. Eppure, a proposito del tempo, non è solo questo il momento su cui si fonda la narrazione; un altro, strettamente correlato evidentemente circola sullo sfondo in una dialettica sì di rottura ma anche di memoria, forse di ricominciamento. E’ il tempo forse anticipato dalla bella epigrafe in apertura tratta da Char:” Solo gli occhi sono ancora capaci/ di gettare un grido”. Un grido già descritto a dire la separazione in atto da una“terra di nere afflizioni” su cui si leva sottovoce, in una quinta di distanza il pianto dell’astro in cielo, “il dolce punteruolo/d’un sembiante perduto in volo”, mentre gli uccelli ostinati continuano e cercano (loro sì) il volo “ in un cielo ancora/ stranamente/ azzurro”. Il respiro allora prova a fendersi lontano da questo cupio dissolvi, in un ritmo controcorrente senza bilancio dei giorni verso ciò che al contrario, nella passione, può ancora concedere qualcosa di febbre senza più ansie entro un tempo che mai davvero segue il nostro,  scombinando piuttosto aspirazioni e progetti e dove la salvezza può passare forse solo nella forza e nella temerarietà della donna, nelle sue capacità creative e di pace. In “Teshima”, dal nome di un’isola giapponese in cui l’artista Christian Boltansky archivia i battiti del cuore dell’umanità, le domande sulle tante esistenze disperse, sullo spreco di vite senza alcuna contropartita, su una infelicità racchiusa ormai in una felicità virtuale, indirizzano così a seguire il discorso verso un affidamento totale e consapevole alle sorti e ai geni della natura, al suo flusso (“Darwiniana”) in una lettura e rilettura di se stesso, all’interno delle proprie forme e dei propri pensieri in cui un io fieramente privo di radici molto anche dice dei propri rivolgimenti e delle proprie contraddizioni:”da solo mi leggo e mi rileggo/ ostaggio di me stesso” (“Ermeneutica”). Ed è questo il punto di maggiore intensità e forza, secondo il parere di chi scrive. Questa rivelazione anche di malinconia, di scompensato fragile disorientamento che soprattutto in “Tra le righe”, dove  la sua” modesta ragione” di righe che “non valgono la bestia nera”, ci cattura dal profondo. E che, a nostro dire, va a compensare quel deficit di scrittura (vicino alle corde della Neoavaguardia- qui richiamata nell’omaggio a Sanguineti) in alcuni tratti eccessivamente criptico che rischia, per forzatura e fors’anche per un po’ d’auto-compiacimento, di disperdere quel fondo d’autentica prossimità che è alla base del libro e che nella poesia da cui prende il nome, nel coraggioso invito a lasciare tutto- famiglia, patria, utopie, sogni, possessi, ricerche di giustizia- per “partire a piedi per le strade” si nasconde per Simone la chiave d’ogni vera, della vera resistenza, nello “sforzo della rosa per non rimanere altro che rosa”.

 

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