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I vuoti del silenzio

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Molto s’è scritto e detto (!) sul valore e la misura del silenzio, virtù inscindibile a partire dal suo rapporto con la parola, tema vitale nel cui equilibrio si cela in attività dinamica il seme del dialogo e dell’ascolto (e che tra l’altro la poesia stessa ha iscritto così magistralmente nella sua struttura). Ma il silenzio, che è certamente un modo diverso di vivere e comunicare, e che è di per sé una realtà ambigua e neutra, non è di un genere solo (come in un piccolo saggio ha ben sottolineato il monaco di Bose Sabino Chialà). Accanto a un silenzio fecondo, di spoliazione e comunione di sé, di promozione e custodia, c’è infatti un silenzio di negazione, racchiuso in una gamma assai stratificata di motivi che vanno dalla reticenza al rifiuto, dall’angoscia al compiacimento, con il quale non è facile fare i conti e che se non rotto, se non espresso rischia di oscurare e inficiare davvero alla radice la vita. Silenzi che si nutrono dei disagi e delle paure del vissuto, dei vizi e delle inquietudini singole e collettive contribuendo ad allargare e a scavare quei solchi di incomprensione e di sofferenza nelle cui distanze un vuoto mai sopito di disappartenenza ci consuma e imprigiona. I vuoti di cui ci parla Anna Ierna nascono appunto da questo sgomento la cui urgenza di dettato è testimoniata, gridata con forza quasi, già nel testo d’apertura della prima sezione (che sono quattro e corredate dalle illustrazioni di artisti anche loro d’area siciliana). L’invito che si leva in “Silenzi”- questo il titolo del brano - è allora all’ascolto di quelle aree di non detto, di trattenuto in cui si celano le grandi e piccole sopraffazioni del mondo, le violenze in cui si perde un umanità piagata e piegata. Un silenzio omicida ci ricorda, in stretta relazione colla successiva “Parole” in cui l’impotenza del verbo, perché negato, perché costretto tra indifferenze e implosioni, invece di aprire nella comunicazione un dialogo quel dialogo chiude e secca in partenza. Rabbiose, e lecite, dunque, le domande che si levano in queste pagine sulle trame di una terra che rischia di spegnersi tra idolatrie e remissioni, tra devastazioni dei campi e del cielo, dove la stessa infanzia viene rigettata e cade non preservata dal male (come nel caso del piccolo Tommaso Onofri qui ricordato). C’è nella Ierna un’autenticità del sentire, e del porsi, molto forte, che preme, si tenta nella vicinanza e nella partecipazione e che è ben leggibile nel respiro affannato delle interrogazioni ma che pure paga per buona parte una fragilità di scrittura e una ineluttabilità della mancanza e del vuoto purtroppo a volte scontata, un po’ adolescenziale, che ne smorzano il registro tra echi e rimandi di genere andando a mortificare ogni acutezza di impressione e controllo e ponderatezza del verso che pure in questa poesia sono presenti e che in alcuni testi e in alcuni tratti si rivelano con sicurezza. Come in “Memoria”, o ne “Il vuoto della vita” in cui la tensione si leva in affidamento alla misericordia del Dio cristiano in cui riscontra il nulla della sua somiglianza con l’uomo di oggi entro l’implacabilità di un male infido, senza avvisi, che “piove, incompreso” e a cui solo la preghiera ( vedi anche la poesia omonima) e la croce possono dare protezione e risposta ad un tempo senza coscienza. O in “Chi eri” ed “Infanzia” che aprono un altro capitolo, certo non secondario, dei silenzi che cercano fuoriuscita dal testo. Perché il tono quasi ininterrotto di rassegnazione e dolenza- a cui solo annunci e meraviglie di natura e d’arte, oltre all’affidamento appena ricordato, riescono parzialmente a sollevare nei colori e nei profumi di una Sicilia amatissima- rivelano un tormento ascrivibile forse a una lontana ferita, qui finalmente focalizzata e riappresa in un ritrovamento di se stessa non nel mondo e nel dolore degli altri ma nella prigione “dell’infanzia”, della propria infanzia: “coi ginocchi insanguinati/per le frequenti cadute,/in attesa di crescere” (“Chi eri”). Ritrovamento tra promesse di vita e sue paralisi che giustappunto in “Infanzia” ha l’immagine delle vecchie cassapanche in cui sono raccolti i giocattoli di quel tempo al cui aprirsi (ovviamente nello svelamento di sé dalla rivelazione degli oggetti) assale “un agghiacciante sentore di morte”, la cui crudezza è con sapienza resa nel verso: “pane bianco/spalmato di fiele”. Testi questi che insieme ad altri molto ci dicono, al di là di facili biografismi, sull’autrice e sul modo stesso di intendersi all’interno della scrittura. Una scrittura comunque di slanci, come detto, emotiva, in oscillazione continua tra una prolissità stereotipata ed astratta di immagini ed accostamenti linguistici nella sostanza poveri (che tra l’altro, nelle considerazioni, sovente nulla aggiungono al malinteso della retorica di una poesia di buoni sentimenti- troppe volte letta e sentita- che non si propone, priva di direzione e per immobilità di fattuali, concrete pronunce) ed una versificazione più asciutta, attenta, efficace diremmo, nelle espressioni- e nelle compassioni- di un’ anima che non smarrisce mai (questo sì) la sua grazia. In questo caso il fiore che Anna ci offre è quello della dignità di un silenzio di cui s’è avuta cura perché in piena assunzione e condivisione del peso, provenendo da una parola finalmente libera da inutili orpelli, e da un’oscurità che ancora graffia, ancora morde - anche in reciproca offesa - dal nostro buio più profondo. In conclusione, dunque, una poesia che proprio da questo rigore e da questa luce andrebbe illuminata e sfrondata in direzione di una maggiore originalità. Perché, in questo senso, l’autenticità del sentire e del porsi menzionate all’inizio, da sole non possono bastare; ed allora aiuterebbe molto nella misura del poetico (del pensiero poetico) e della lingua una frequentazione costante e reale (questo però, sia ben chiaro, vale per ognuno di noi) della tradizione in cui siamo iscritti, il cui confronto, anche nella contemporaneità di altri testi, anche nel suo rigetto, non può essere eluso.

 

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