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Il nulla ha gli occhi azzurri, romanzo di Caterina Davinio

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Il nulla ha gli occhi azzurri

romanzo

Autore: Caterina Davinio

Editore: Effigie2017

Con una nota critica di Francesco Muzzioli

 

Recensione di Filippo Golia

 

Fin dall’ingresso a Kittili, a bordo di una rombante Ferrari, si percepisce di essere giunti in uno di quei luoghi esclusivamente letterari, che rispondono a un’oscura legislazione, la quale probabilmente resterà in parte inespressa fino alla fine: il castello di Kafka o un mondo inventato da PH. K. Dick.
Accettata questa sospensione delle regole del realismo, diversa da quella delle fiabe o della fantascienza tradizionale, in cui il meccanismo della finzione è svelato e addirittura esposto, ci si prepara subito a percorrere i meandri di una fuga dall’esito incerto: ricerca di grazia, di dannazione, di entrambe o di nessuna delle due (l’equilibrio più difficile), come in Kafka.
Siamo quindi in un luogo archetipico: due dei tre protagonisti della storia, Dorian e Bernard, si trascinano dietro una quantità di archetipi di evidenza abbagliante: si potrebbe stilare un elenco di parentele, che comprenderebbe anche lo Stendhal di Vanina Vanini, un sacco di Dostoevskij, Salomè, Giacobbe e l’angelo. Oppure si può piombare direttamente a quasi tutte le cosmogonie in cui un demone femminile (come Lilith) lotta con un Dio maschile per seminare il male.


Sembra però che qui il peccato originale sia nella trasformazione di Dorian in fotogramma, pellicola, foglio di carta, pura immagine. Un autore italiano contemporaneo, oltre che nostro maggior editore, non smette di insegnare che ci illudiamo di aver reso autonome le immagini, mentre quelle si trascinano dietro il proprio significato esoterico. Ma nemmeno quell’archetipo così evidente in Dorian – l’ermafrodito e quindi Eros – riesce a realizzarsi, ai nostri giorni, in pieno. Rimane menomato, incompiuto, indeciso sulla strada da prendere. E così tutti gli innumerevoli incontri e scontri di Bernard e Dorian (il buono e semplice, oggetto d’amore e la prostituta sacra che vuole amare e distruggere) si risolvono quasi sempre in una lunga prosopopea – secondo il significato della parola di parlare per conto di un’altra persona o oggetto – cioè in un continuo parlare di quei miti senza mai incarnarli.
A tratti si percepiscono addirittura le quinte, si avvertono i rumori e i cigolii, le corde tese e le scene spostate, di un apparato barocco.
Perché sarà anche vero che spesso siamo di fronte a un Giobbe messo a dura prova, ma le leggi stesse del luogo in cui si sono infilati i due protagonisti impongono di ricordare che si tratta sempre e solo di un benzinaio con letture difficili, appassionato di beneficenza, e di una modella bisessuale già quasi rovinata.

Potrebbe raccontare la storia di Moby Dick e contemporaneamente farti capire che si tratta di un comune cetaceo”, è una delle frecce più acuminate di Moravia su sua moglie Elsa. E davvero evocare Elsa Morante non è un caso, quando si è dalle parti di angeli biondi e senza cuore.
Il luogo in cui si sono infilati: Schlafen, Kittili, Rosinenburg, ripetuto nel racconto, come le volute di una strada, nomi sussurrati come un salmo, sembrano essere queste tre parole a creare tutto il mondo di cui si legge, a evocarlo dal nulla, con il suo bene (poco) e il suo male (infinito), a disegnare un tempo mistico di espiazione e di esilio. Esilio da cosa? Dal mito, appunto, cercato, accerchiato, moltiplicato ma sempre sfuggente.

Mancato il mito, condizione ormai scontata per la letteratura contemporanea, resta la tragedia e l’inevitabile gravitare su luoghi letterari già visitati: così Bernard e Valentin Skodras (il malefico deus ex machina in nero del racconto), uniti nella Ferrari in cerca di Dorian già ucciso, sono inevitabilmente Myskin e Rogozin che si piegano sul corpo esanime di Nastasya Filippovna. Tutta la rimozione di qualsiasi possibile esito sessuale tra Dorian a Bernard (ma anche poi tra Valentin e Rose), del resto, fa pensare a Dostoevskij.
Nei giri sempre più stretti tra Bernard e Dorian si retrocede addirittura, sempre in cerca di una realizzazione mitica negata, verso paesaggi letterari ancora più antichi: il romanticismo e anche il crepuscolarismo (le bianche lenzuola…).
Questo accade quando si mette in moto una potente macchina letteraria che non può, causa i tempi immaturi o del tutto fermi, andare avanti: va indietro.

Ma in questo lungo percorso le regole di ogni luogo archetipico, regole letterarie per eccellenza, sono rispettate: prima fra tutte che ogni riga può smentire, contraddire o annullare le precedenti senza alcuna difficoltà. La natura metamorfica della realtà romanzesca è pienamente accolta, e qui libera da qualunque riferimento a una supposta realtà esterna: caso emblematico il transitare nel racconto della malattia di Dorian, che evoca l’HIV, l’anoressia, scompare, torna come psicosi, scompare di nuovo. Ma altrettanto ondivaghi e fluidi sono i rapporti tra Dorian e Valentin o tra Bernard e Stejla.

Dicevo che siamo partiti da Kafka e dalla fantascienza distopica, siamo passati per Dostoevskij ma il punto di arrivo è senza dubbio Faulkner. La scenografia del racconto lo richiama più volte. E alla fine la ricerca del sacro, non potendosi esprimere nel mito si sposa alla violenza, come sempre in Faulkner. Stejla e Gerda sono due personaggi meravigliosamente faulkneriani. (E non mi preoccupo ad accumulare tanti riferimenti, quasi un’esibizione, perché il principale, Robert Musil, manca alle mie letture e dunque pecco sicuramente per difetto).
Infine due parole su Valentin, il personaggio da fantascienza, quasi un nuovo Palmer Eldritch. La sua descrizione come un Tychoon che vive in un mondo tornato giungla, lui stesso sovrastato dalle forze della contemporaneità che, in teoria, dovrebbe dominare, combacia con analoghe descrizioni fatte dai più importanti autori contemporanei, italiani e non: Giuseppe Genna (History, il padre di History), Calasso (l’innominabile attuale, su un mondo in cui la potenza è troppo estesa per poterla circoscrivere e nominare), Thomas Ligotti (i mostri metropolitani della Nyctalopes trilogy).
È buffo trovare questo libro maggiore pubblicato da un editore di nicchia, Effigie. Ma per quanto ci si sforzi non si riuscirebbe a immaginare quale dei grandi editori italiani potrebbe reggere oggi un testo simile (Adelphi non può assorbire tutto e in genere va in cerca di forme dalla classicità più attestata).

 

Filippo Golia, gennaio 2017.

 Immagine di copertina: Guenther Eh

In una provincia americana costellata di paesi immaginari, il benzinaio Bernard si divide tra il lavoro nella sua stazione di servizio, affetti familiari un po' sbiaditi e il volontariato in un centro di assistenza sociale. Sarà sconvolta dall’incontro con Dorian, un ermafrodito ventenne, modello del famoso fotografo e manager dello spettacolo Valentin Skodras. Skodras è un uomo ricco, spregiudicato e creativo, ma con dei lati oscuri: sospettato dell’omicidio di una propria assistente, è stato scagionato dal processo, ma vi è chi non crede nella sua innocenza. Le vite emarginate di alcuni frequentatori del Centro sociale si intrecciano a quelle dei protagonisti, mentre la storia attraversa più di una verità, tutte inquinate da ragionevoli dubbi, e la diversità viene vissuta, sofferta e rivendicata in molti modi. Sullo sfondo gli ambienti patinati della moda e dell'arte nelle grandi gallerie di New York, privi di scrupoli e retti dalle leggi ferree del potere, dell'opportunismo e di una feroce corsa al successo. ---

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