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al testo di Silvia Rosa
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SILVIA
Tamara era un nome di spezie, ambra il colore della pelle e il corpo sodo che non ho avuto mai, così me lo immaginavo portando a spasso tutti gli spigoli delle mie vocali ‒ Silvia invece è un nome docile, pensavo, di quelli che un uomo non si azzarderebbe a sospirare di piacere, al limite silvestre di un verde da piantina coltivata dietro una tenda di cotone liso, chissà come sarebbe, mi dicevo all'improvviso, avere il nome dell'amica immaginaria che nei giochi dell'infanzia mi teneva compagnia, ‒ Ronca un volo di immaginazione che tra le labbra di sicuro avrebbe un punto di domanda ‒ ma che nome buffo, da dove viene? Silvia compare poco nelle canzoni e di poesie ce n'è ingombrante una, che lei alla fine muore giovane, insomma, tutta un'attesa che sa di primavere e rose e crinolina e danze di farfalle, anche loro poverine destinate a scomparire presto. Io volevo un nome esotico che mi facesse il seno bello e l'andatura da valchiria, ma mi è capitato in sorte d'essere due occhi troppi grandi e l'insistente vocazione al sì con tanto d'eco verso il cielo, due pini sulla via dello stupore dove mi arrampico con questa mia paura di cadere intera sull'ultima lettera aperta come una bocca d'aria piena, prima dello schianto.
Silvia Rosa, da "Tempo di riserva" (Giuliano Ladolfi Editore, 2018) |
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