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Acrilirico

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Ecco un bel libro. Questo Acrilirico tiene fede al titolo che porta. Togliendo la quarta sillaba (ri) dal titolo, si ottiene Acrilico che è un tipo di vernice molto versatile che può essere usata a corpo con la spatola, a pennello come la pittura ad olio, o diluita fino ad ottenere un effetto acquarello. Può essere usata su tutte le superfici, dal legno alla plastica, alla stoffa, al metallo. Così questo libro, è versatile e non è facilmente inquadrabile in una tipologia di testo. La sua originalità sta nella fantasia dell’autore, fantasia che si ripercuote nello stile di scrittura e nelle idee che l’autore depone sulla pagina come un pittore su una tela, a partire dalla materia acrilica, e modificandone la densità, propone vari effetti plastico-cromatici.

Volendo trasferire l’analogia in campo culinario, vi si leggono/assaggiano testi/piatti diversi, attesi con trepidazione e curiosità di gusto nello svolgere della lettura/pranzo. Si passa dalla poesia, alla saggezza dell’aforisma, alla narrativa (dal racconto quasi autobiografico al racconto fantascientifico), all’articolo, al nucleo iniziale di un potenziale saggio, così come in un pranzo si passa dall’antipasto al dolce con continuità e calibrata degustazione di vini che accompagnano i piatti.

È un libro originale, scritto, come si percepisce nello sviluppo dei pensieri, da una persona di ampia cultura, con grazia e carismatica determinazione, qua e là raccogliendo nel testo, senza ostentazione, riferimenti alla letteratura antica e moderna. L’uso delle parole è appropriato e intelligente il loro smarcarsi dalla banalità del dire. La scrittura è al tempo stesso onesta e, quindi, integra – in quanto non ha infingimenti dettati da inutili pudori che hanno il solo risultato di falsificare una scrittura – e corrotta, se così si può dire, dalla stessa natura umana che appare qui totalmente debole nella sua alterabilità e nei suoi slanci verso relazioni che lasciano quasi sempre, specialmente quando sono d’amore, l’amaro in bocca.

Se dovessi definire questa opera di Turi la definirei il libro dell’eresia delle regole e dei significati. Ma è una eresia sana, che sa scuotere la coscienza e non si nasconde dietro il dito del perbenismo e del buonismo; se una relazione va male, e fa male, è così punto e basta, se avviene qualcosa di anormale nella propria esistenza perché non dirlo così com’è? Perché non farne motivo di slancio verso un punto più alto, e non più basso, della montagna dell’esistenza?

Narrare le proprie visioni ed esperienze, inventate o meno, reali o fantasiose, ha il suo valore di verità, ci credano gli altri oppure no. Ma la fantasia di Turi non lavora solo nei concetti e nelle visioni, essa lavora anche concretamente sui testi, i quali, deformati a piacimento, diventano al contempo scheletro e sostanza del proprio dire. Se si ha voglia di interrompere un periodo, di riproporlo a sobbalzi, di sgattaiolare via con la penna da davanti il lettore, proprio mentre sta avvenendo la lettura, perché non farlo? Ci sono regole, nel testo di Turi, che si autodefiniscono nel corso della sua scrittura, egli, scrivendo, crea il gioco e la regola del gioco. Ed ecco la meraviglia e la grazia di questo libro: una latente novità lo caratterizza, una sorta di instabilità accompagna il lettore durante la lettura, dalla prima all’ultima pagina, talvolta avviandosi, i pensieri, da una sorta di caos e nebulosità di interrogativi all’apparenza scontati, ma che presto si dimostreranno essere tutt’altro.

 

Riporto alcuni estratti.

 

*

 

Da Fragmento archeoillogico:

 

[…]

ecco. a venticinque anni io vivo di inquietudini e deliri e di collassi sociali bisestili – ogni quattro anni le fave ricrescono nei loro baccelli attaccate

?ias, oirartnoc la

e per di più ignorando il modo di doppiare il capo horn della mente

la ragionevolezza e

un’ansia di controllo tecnico che continua a fallire

e il terrore epico che l’abbandono possa sgattaiolare nell’orrore.

 

nel frattempo (o intanto) publio cornelio scipione ammira i pennacchi di fumo avvolgersi al cielo di cartagena in spagna e i soldati alla ronda di guardia. sorseggia massico o falerno mentre detta al suo scriba una lettera per quel suo fratello in patria, sorridendo di ogni tratto di calamo segnato sulla cera. [è potente è virile è un distruttore] trionferà a roma e su per la via sacra, e sì potrà colpire di minchia senza che l’impeto gli fiacchi le gambe.

 

beve, scoreggia. anche questa è fatta, pensa.

 

ciao e.

a presto.

 

*

 

Da Retro:

 

Questa è Retro, per Sele

e per quando il sole si farà più sotto.

 

I

 

Il mio nome è monaco. Monaco che sbaglia

di continuo. Teso, convulso, offeso, la lista

degli insulti che ho incassato, così debole,

non indispensabile.

A combattere contro natura la polvere del panico

nell’ansito spirale di un predatore preso – volevo dirti

non fa per me

la teoria dell’amore, la devozione astratta.

Non me ne dare più. Io sono della setta

che non dà speranza, rifiuterò gli oracoli e il ritorno

sono l’orgoglio che non chiede pace, l’amore netto

che non sa sporcarsi.

Desideravo affidarmi al tuo affetto. Me lo sentivo

forte, immunizzato.

Vederti scorticare sulle loro gambe, la

musica, i Disciplinatha, il whisky. Ho pensato:

mi sta attirando nel suo inferno di donna e

stanotte sono stato assassinato dall’arroganza della libertà.

Ci siamo contraddetti e contraddetti

ancora, prima che uscisse in luce – tu! –

l’autoamore acquisito soprannominato il niente.

Finché “occhidolci” il vuoto si specchiasse. Sono io.

[…]

 

*

 

Da Illuminazioni:

 

[…]

I tessuti corporei si rigenerano continuamente – ciò che dà la sensazione della permanenza è la stabilità apparente della forma, mentre la sostanza è continuamente rimescolata dal vissuto. Questo già dovrebbe significare qualcosa. Che esistiamo semplicemente perché mutiamo, ovvero perché sembriamo.

L’idea stessa della permanenza ci viene infitta solo dal ricordo che abbiamo di noi stessi.

[…].

 

 

Grazie dunque a Gian Maria Turi che mi ha fatto divertire nella lettura e al contempo mi ha condotto su vie meditative scuotendomi come un sacco di farina che deve depositare sul fondo tutto il suo contenuto.


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