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Mille e quarantacinque

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E' venuta già l'ora delle farfalle.

Si, dei lepidotteri in picchiata,

dei ronzii. E dello smielare.

L'ora che il mare avvampa

in cerchi di schiusa a riva,

e le gambe smettono l'inverno.

Tre o quattro volte ho sentito

già cambiarsi il cielo e le montagne,

con la faccia che hanno le cose

quando sanno arrivare un conto

diverso. E tutto respira senza affanno.

Dalla luna, invece, vengono tue notizie,

del tuo svernare, che un po' mi appartenne,

setaccio di un letargo strano, gelato 

e lieve, lento e micidiale.

Ti ho immaginato incastrato fra due

rocce, un utero senza gentilezza,

a dormire i giorni che ci hanno

appaiati, noi venuti da un corredo opposto.

E poi, d'improvviso, svelato.

Un'agitazione di bozzolo,

una fermentazione primaverile.

Senza più una sola forzatura,

una catena.

Come quando alzi il bicchiere

sotto cui tenevi prigioniere

due ali, non importa la fattura.

E dall'apnea, campana di morte

momentanea, incubatrice inversa,

fai venire finalmente via

il battaglio/ Icaro

che hai  provato a fare terrestre.

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