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I compagni

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1947, Varsavia
Si ritrovarono a camminare per la stessa via, quel giorno. Ascoltò la sua lezione in silenzio, seduto all’ultimo banco. Dalla cattedra dirigeva il suo consueto gioco, quel gioco che l’aveva portata a diventare una fallita. Infondo, aveva trascorso tutta la sua vita a cercare di convincere gli altri di possedere una sicurezza che, in realtà, non aveva. Guardava con aria da attrice i singoli ragazzi, batteva la piccola mano sulla cattedra a ogni errore di lettura, leggeva inforcando gli occhiali le parole sul libro Nazionale. Si alzò lentamente dalla cattedra e si avvicinò al ragazzino del terzo banco. Aprì il suo quaderno e si accorse che, per l’ennesima volta, aveva lasciato il foglio in bianco. Da tempo aveva capito che quel ragazzino dal vestito logoro non aveva né il tempo né la voglia di studiare. Frequentava la scuola per volere del padre, perché un giorno suo figlio sapesse almeno leggere il giornale di Varsavia. Girava per le strade del centro e vendeva la frutta al mercato. Si raccontava a Varsavia che una decina di anni prima fosse nato sotto il bancone della frutta, mentre la madre urlava all’impazzata alla ricerca di aiuto, in un mare di sangue. La trovarono così, con le gambe aperte, con gli occhi tramortiti per il dolore e un bambino che urlava tra le sue braccia. Era sopravvissuto a quella prima esperienza di vita e aveva compreso sin dal primo istante che avrebbe dovuto lottare con tutto se stesso per poter campare al meglio. Si sedette nel banchetto davanti a lui e gli restituì il quaderno. Impregnò il pennino di inchiostro e glielo mise in mano. Il ragazzo appoggiò il pennino al foglio bianco e lo macchiò. Il suo sguardo assente, il suo volto muto, la sua falsa morte.
Non voglio scrivere.
Alzati in piedi!
Si avvicinò alla cattedra e tirò fuori dal cassetto in basso a destra una bacchetta di legno. Corse incontro al ragazzo e gli intimò di alzare le mani e di metterle con il palmo rivolto verso il basso. Fred chiuse gli occhi per non sentire il dolore, mentre alzava alta la bacchetta.
Da oggi sei eletto capoclasse. Avrai la responsabilità di segnare sulla mia agenda il nome di quelli che non fanno in compiti a casa e stabilire la punizione più giusta, a parer tuo.
I ragazzi la guardarono incredula. Che fosse matta, lo dicevano tutti a Varsavia. Sapeva leggere e conosceva molte cose strane, ma non avrebbero mai pensato che potesse affidare a Fred, il più discolo della classe, l’alunno che meno degli altri sapeva leggere e scrivere, il compito di capoclasse. Suonò la campana e i ragazzi uscirono a fiotto dall’aula. Era ancora lì. Si avvicinò alla cattedra e ripose i suoi libri nella borsa. Si alzò e uscì lentamente dall’aula, come un alunno. Il solo Fred fece per uscire, ma poi girò lo sguardo verso di lei.
Perché?
Perché no? Infondo, sarà un buon modo per esercitarti a scrivere qualcosa.
Aveva capito tutto. Lei aveva capito tutto e aveva dato tempo, laddove altri non vedevano altro che noncuranza. Gli sorrise e tentò di accarezzargli il volto con la mano. Aveva sempre desiderato un figlio ribelle come lui, ma da tempo non credeva di essere capace di gestire qualcuno che fosse al di fuori di se stessa. Fosse pure un ragazzino. Si trovò in strada a camminargli accanto.
Come al solito, pensi che io sia una stupida.
Non ho mai pensato che tu lo fossi. Al contrario..
Lascia perdere, stai parlando troppo e la cosa non mi piace.
Sorrise ancora una volta in modo beffardo. Portava la borsa sul braccio destro e cercava di stringere con le mani il cappotto per coprirsi dall’inverno di Varsavia. La piuma sul cappellino dondolava veloce sulla sua testa e prima che fossero passate le due del pomeriggio si ritrovarono dinanzi al portone di casa sua.
1, 2, 3.
Dorothy, ho una cosa da chiederti.
Finalmente siamo giunti al motivo della tua visita. Mi sembrava strano che non tu non avessi un buon motivo..
Voglio vedere i Compagni.
Il suo volto si pietrificò. I Compagni. Erano anni che non sentiva quella dicitura. Appoggiò la mano sul portone e spinse rapidamente la chiave nella serratura. Ricordò il suo vestitino rosso a pieghe e la piccola cintura in metallo che le cingeva i fianchi. Aveva ben chiaro nella mente quel locale di vetro, quei tavoli col marmo bianco e quell’odore di fumo. Ridevano tutti insieme, quel giorno. Brindavano e bevevano, mentre i ragazzi volontariamente urtavano le ginocchia delle ragazze sotto il tavolino. E dopo l’ennesimo bicchierino, Josez si alzò in piedi e barcollando pronunciò quel discorso che le avrebbe segnato la vita.
Oggi, ragazzi, è un grande giorno. Da questo momento in poi, qui, in questo lurido locale, dinanzi a questo schifoso whisky –e infatti, presto andremo via senza pagare!- con queste splendide ragazze al nostro fianco, d’ora in avanti voglio essere per voi un Compagno. E voi tutti, e voi tutte, sarete per me Compagni! Perché il viaggio fatto fin qui non sia solo di redenzione per noi stessi, ma per la Nazione tutta. Perché gli estremismi non abbiano seguito e la libertà trionfi!
Sorridevano, i ragazzi. Sorridevano, le ragazze. Nessuno avrebbe potuto immaginare che di lì a qualche mese la Polonia sarebbe stata invasa.
E ora, Compagno Theodor, vai al pianoforte e suonicchia qualcosa delle tue, cosicchè io possa ballare con la Compagna Dorothy.
Era ubriaco. Erano tutti ubriachi. Si alzò senza batter ciglio dal tavolino, dopo aver spostato la gamba della ragazza che gli stava accanto, e si avvicinò al pianoforte. Accarezzò lentamente i tasti e prese a suonare un jazz che aveva sentito per radio il giorno prima. L’atmosfera si rallegrò in un colpo d’occhio. Josez prese Dorothy per mano e la condusse al centro della sala, mentre gli altri continuavano a bere e a ridere tra loro. Sorridevano e si guardavano compiaciuti. Lui le appoggiò la mano sulla schiena e tra un passo di danza e l’altro cercava di accarezzarle i fianchi, mentre si dimenava. La lotta divenne buffa, fino a quando la musica non finì e lasciò nel fiatone entrambi. Dorothy si avvicinò al pianoforte e sorrise radiosa. Infondo, Theodor era sempre stato il suo preferito, lo sapevano tutti. Vicini di casa, erano cresciuti insieme, scambiandosi messaggi in codice da una finestra all’altra, lottando per una caramella e dividendo i biscotti che riuscivano a rubare dalla cucina. Si capirono con uno sguardo. Theodor intonò quella musica che sarebbe rimasta nelle orecchie di Dorothy per tutta la vita.
http://www.youtube.com/watch?v=KP8O8Lgjkiw
Scosse la testa e chiuse gli occhi. Infine, smosse il vestitino e iniziò a cantare portando il tempo con la mano.. Si guardarono negli occhi e sorrisero. E tutta la sala intonò la stessa canzone. Annebbiò il suo volto e chiuse ancora una volta gli occhi. Poi si girò e fece in modo di dimostrargli tutto il suo disprezzo attraverso uno sguardo. Si sentì confuso e insicuro, come se non avesse fatto bene a ritornare a Varsavia, a cercarla, ad ascoltare la sua lezione, a seguirla per strada e ad accompagnarla fin sotto il suo portone. E a farle quella richiesta.
Non hai alcun diritto di chiamarci ancora così.
Abbassò lo sguardo, accusando il colpo. Non li vedeva da anni, ma li aveva tutti ben chiari nella memoria, come in quei giorni d’estate in cui aspettavano l’alba con il cuore in gola. Erano passati dieci anni, è vero. E una guerra, è vero anche questo. Ma nella sua memoria i Compagni erano troppo forti per essersi fatti abbindolare da una banda di tedeschi.
Tu non puoi…
E i suoi occhi si bagnarono di lacrime. Tirò fuori la chiave dalla serratura e cambiò strada. Senza alcuna parola capì che doveva seguirla. E si trovarono a camminare ancora una volta l’uno accanto all’altra, come quando da ragazzini andavano a scuola per la stessa via e si fermavano a parlare ora dei fiori ora dei frutti, ora dell’amico di banco ora del professore insopportabile. Quel giorno non dissero parola. Camminarono l’uno accanto all’altra in religioso silenzio. Come chi sa di dover scoprire qualcosa che è stato coperto dalla polvere per anni.


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