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Osservazioni relative a Cecit di Jos Saramago,

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Premetto che il testo in oggetto è stato fruito come audiolibro tramite la voce di Sergio Rubini  e  scelto come tema di riflessione e discussione in un gruppo di lettura.

 

"Non ho potuto né ho voluto ritornare sulla lettura per dire ciò che voi avete espresso in modo eccellente. Anche perché non ho avuto nell’immediato l’opportunità di accedere al testo stampato, che certo consente un’analisi più puntuale. Essendomi limitata ai miei appunti e alla discussione collettiva online, non ho ritenuto indispensabile riscrivere in forma di testo ciò che avevamo considerato e ribadito in molti. Avendo ieri avuto tra mano, con la posta, inviata tutti i vostri testi scritti in bella forma e stile, mi sono concessa il lusso di imparare da voi lo scioglimento dell’arcano di certi passaggi, nei quali non vi siete smarriti, ma avete illuminato anche per me  il filo della logica su cui si sviluppa la vicenda. Munita delle vostre lenti, credo di aver colto un tratto importante che forse mi era sfuggito, sciolto nella concitata sequela degli eventi finali, tesi a ricuperare quella linearità temporale e narrativa (lo scioglimento si profila rapido e quasi troppo facile) che invece la gran parte del racconto non aveva contemplato, insistendo senza sconti, invece, nella banalità orribile della prigionia e sulla più terribile rassegnazione dei prigionieri alla perdita dei più elementari comportamenti civili umani (ad esempio il mancato tentativo di gestire in modo meno ferino le deiezioni del gruppo, avendo gestito invece, sia pure in modo passivo, la sepoltura dei loro morti secondo ordini e minacce ricevute dall’esterno).

In sintesi si avverte lo sguardo impietosamente nichilista dell’Autore: fin dal principio impera un’ottusità assoluta e specularmente ripartita:  la reazione immediata ed escludente del sistema politico-amministrativo, la furia di liberarsi del problema e anzi, per indizi, la negazione stessa di ogni problema, e come corrispettivo, le mancate reazioni del gruppo, come se il  potere costituito e  le  pur incolpevoli vittime del morbo avessero rinunciato per lo stesso partito preso a interrogarsi sul perché  accadeva quel che accadeva dentro il reclusorio e, per indizi, anche fuori.

Poste così le cose, rientra nell’ordine del disordine regressivo l’ingresso dei ciechi aggressivi e il loro tentativo di trascinare a lungo l’esistenza espropriando e sodomizzando gli imbelli disgraziati della prima ora. Ma ci troviamo davanti al marciume residuale di una società capace solo di prolungare la sua agonia. Dunque degna di perire tutta o quasi. Ecco il piglio nichilista, secondo me.

Ma l’uomo e la sua storia dimostrano risorse inedite, se non altro l’ eventuale reazione di sopravvivenza, ma suffragata da un ripescaggio di razionalità che non si tira indietro neppure di fronte alla prospettiva di potere e volere rispondere con la violenza alla violenza. Ecco la piccola rivoluzione all’interno del reclusorio! Essa un po’ fa ripensare alla rivolta del ghetto di Varsavia, ma anche induce ad aspettarsi il proseguimento del conflitto col e nel fuori, di cui non è possibile valutare lo stato delle forze.

Qui Saramago allenta il suo sguardo pessimista, non solo in  omaggio al dovere narrativo di tirare le fila di una vicenda inventata, condotta tra l’intento di metaforizzare qualche aspetto della realtà storica e il desiderio di condurla all’indispensabile conclusione, magari verso l’anticipazione catartica di un nuovo inizio, il che è sempre pedagogicamente salutare, perché induce il lettore a spostarsi dall’osservazione del piano sistemico che schiaccia - nel quale e a causa del quale inizia il morbo[1] - al livello di una emergenza marginale eppure importante che prevede e valorizza l'iniziativa individuale in forme magari coraggiose , impreviste e imprevedibili.

 Quando nel reclusorio arriva il contingente degli aggressivi (il loro comportamento denuncia un peggioramento delle condizione esterne) e si sviluppa la lotta per la minimale sopravvivenza, il gruppo primario,avendo già compiuto un certo tragitto di ri-socializzazione, abbozza una leaderships femminile che trova in sé la forza di tentare il salvataggio e l’uscita del gruppo dal reclusorio seguendo l’intuizione, suffragata dall’esperienza della vedente, che il mondo da cui si era stati separati non ha più il potere di fermarli e respingerli nel reclusorio.

La sguardo nichilista dell’Autore sembra trovare conferma nella descrizione dell’assoluta decadenza fisica e  dello stato di anomia del mondo che nella memoria dei reclusi avrebbe conservato  lo stato pre-epidemico. Invece nulla di ciò che  costituiva la condizione civile è salvo. Neppure la sepoltura dei morti, indizio ancestrale dell’ingresso umano nel civile, trova cittadinanza. Persino le icone religiose sono state uguagliate con aggiunte posticce alla condizione della cecità generale. E ciò è vissuto come massimo orrore dalla moglie del medico e poi dal pubblico che affolla la chiesa e che reagisce al diffondersi dell’informazione sullo stato delle immagini sacre.  L’orrore e la paura superstiziosa provocano la corsa cieca e vertiginosa della folla  verso l’uscita: è la totale sanzione dell’orrore e della totale abiezione. E’ evidente la perdita generalizzata del senso religioso, mentre resta evidente lo spirito superstizioso. Il gruppo primario sembra accettare “la morte di Dio”, cioè il Suo silenzio e l’aver rinunciato alla possibilità di vedere il mondo ferito. Per contro il mondo ferito fugge da quello stesso Dio.

A questo punto ti aspetteresti di assistere alla depressione del gruppo primario a petto di   quella più ampia della città e dei sopravvissuti sbandati. Invece il gruppo rinsalda la coesione, soffre la fame, ma la tacita con il nutrimento mentale offerto dalla lettura condivisa. Qualcosa di elevato del mondo di prima trapassa nella pratica di vita del gruppo che riesce a sperare e a progettare un ritorno all’agricoltura naturale. Ed è in un contesto di pacifica condivisone che la vista viene riguadagnata non solo dal gruppo, ma dai sopravvissuti dell’intera città.

Qui il procedimento favolistico e magico si prende la scena e risulta a mio modo di vedere razionalmente meno giustificato rispetto alla crudezza con cui tutta la situazione è rappresentata: in modo così particolareggiato e truce da risultare specchio fedele di certe nostre crude realtà, vissute e  presenti nel nostro quotidiano  senza che riusciamo a vederle, cioè ad avere cognizione e immaginazione dei loro addentellati e rinforzi perversi.

Certo, Saramago rinuncia sul piano narrativo all’idea di una rivoluzione olistica di massa che, come la storia insegna, reintroduce i germi di ciò che vuole contestare. La rinascita, dubbia e faticosa, non è da romanzo ed è fra le disponibilità difficili e sempre ambigue di una parte di umanità che si prende il tempo per maturare e confrontarsi raccogliendo il fiore del pensiero umano e delle pratiche bianche di cura e sostegno, nelle forme discorsive e a-dogmatiche dello scambio sociale."

Bianca Mannu



[1] (Nello sviluppo della storia il morbo si rivela come incapacità degli individui a prendere adeguata consapevolezza di sé e del mondo, al punto da perdere persino il senso dell’orientamento fisico, tranne che per la vedente moglie dell’oculista che fa da trait-d’union tra le due incommensurabili condizioni fisiche e relazionali di vedenti civilmente socializzati e non vedenti reclusi, del gruppo affiatato.)  

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