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E quello che dev’essere, che sia

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Non c'è promessa al mare che io mantenga -
o passo lungo la navata
di clessidre irregolari -
che non infranga il voto sull'altare
di me a me agnello,
di me a me riscatto e giuda,
moneta a me pagata da me stessa.
Rinasco -
sepolto quello che, tradito,
fasciava in bende di respiri scuri
la croce e il torace mio ladrone -
mio lamma sabactani - eloì o eloì -
mio tu, tu povero, tu muto mio signore.
Mi sciolgo -
pagando un riscatto di dolore
a nuovi occhi,
sì nuovi o come nuovi
di me a me risorti occhi,
miei occhi di agnellino cieco,
furenti e dolci di stupore.
E ogni cosa è come un giglio
in campi dove l'erba ha la mia voce -
che chiama,
in un silenzio sterminato
di stelle unite in una luce sola -
un nome.

 Alessandra Ponticelli Conti - 14/07/2014 13:43:00 [ leggi altri commenti di Alessandra Ponticelli Conti » ]

Magnifica anche questa!

 Amina Narimi - 13/07/2014 17:22:00 [ leggi altri commenti di Amina Narimi » ]

Da quel primo matrimonio a Cana dove l’acqua fu vino fino alla Santa cena il vino in sangue e all’ultimo sabbat “ Padre, padre mio ,perché mi hai abbandonato?”
Il sangue è compiuto e Cristo affida al Padre la sua sposa, Cristo,
Il leone della tribù di Giuda, che per mano di Yehudah morirà,
doppia “incarnazione” che s’inscrive nella storia come Giuseppe che veglia sul ventre materno grembo di Dio fatto uomo e l’altro Giuseppe d’Arimatea che lo depone nella tomba e lo veglia mentre l’uomo diviene Dio
Come ai due lati della croce, tra questi due noi, forse si erge la verità, tra la misericordia e il rigore , là, ai cui piedi pregano un uomo e una donna, Maria e Giovanni, al centro non c’è né uomo né donna, ma unità, al centro c’è il solo viso Presente, dove nella dualità del più antico Giano bifronte esistevano solo passato e futuro
Come tra i due Giovanni, Cristo è l’IstanTe, legato per essenza all’eternità, a quel giglio che “è” ogni cosa in una sola voce, un nome, con quegli occhi che Rivedono noi come degli alberi che camminano e l’erba e il giglio e la voce sembrano i tre piedi della sera in cui l’uomo raggiunge il Nome richiesto dalla sfinge
Come Edipo abbiamo i piedi feriti ed i pastori intorno che ci accolgono finchè non cercheremo il segreto della nostra nascita lungo strade impervie e strette, inconsapevoli eppure contenenti quell’essenza che ci fa rispondere “l’uomo” alla nostra sfinge sorella, femminile nascosto)
vincendo la sterilità, entrando nella nostra Tebe dovremo sposare nostra madre( un riscatto di dolore) per resuscitare il padre e nuovi occhi dalla cecità, nuovamente ciechi e interiori, aperti nella discesa fino al nucleo, fino a prendere il mano il proprio tu-signore-muto, noi, il proprio yod per diventare il dio che siamo.

con la forza delle mani giunte che riunite insieme fanno stelle nella casa è davvero quando siamo deboli che siamo forti..
e si vorrebbe digiunare leggendoti pregare in questa tua poesia
è come avvicinarsi ai chiari del bosco senza cercarli e camminando trovarsi d’improvviso con i piedi gonfi nell’acqua fresca e togliersi le bende al sole dal costato, sentire che l’erba infine torna a crescere sulle mani come dall’inizio, tutto questo sei, insieme
raggiungendo una intensità pari alla luce togliendo il velo a ciò che la nasconde, che chiama

 francesco innella - 13/07/2014 16:37:00 [ leggi altri commenti di francesco innella » ]

Cara Cristina la tua poesia risente di un ardore mistico pari a quello delle sante. Complimenti

 Lorenzo Mullon - 13/07/2014 12:57:00 [ leggi altri commenti di Lorenzo Mullon » ]

il signore è muto ma l’erba parla
sempre sia ciò che deve essere
molto bella

 Adielle - 13/07/2014 12:32:00 [ leggi altri commenti di Adielle » ]

Bellissima tua di te in te per tutti i noi di noi.

 Nando - 13/07/2014 11:29:00 [ leggi altri commenti di Nando » ]

Intanto di dico che è bellissima, che potrebbe averla scritta una suora (Laurentius de pace), e che la rileggerò ancora per commentarne dei passi, i più significativi alla mia lettura.

Ciao Prof..

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