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al testo proposto da Gian Piero Stefanoni
Piazza di Spagna
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Chi ha detto che il cielo non è altro che un vecchio tamburo completamente inutile e senza suono? proviamo a salire la scalinata più dolce del mondo guardiamo verso villa medici senza perdere di vista la nostra barca di marmo là sotto né il capitano bernini né la piccola isola con le tre palme africane a destra e guardiamo il tramonto incomparabile che tuttavia voglio paragonare a una trombetta o meglio a un intro gruppo di trombette intanto che le nuvole sono violini accesi senza dubbio arpa è l'acqua delle fontane contrabbasso il vento forte e i passerotti flauti e zampogne nessuna orchestra è concepibile senza un colpo di tamburi in fondo ma se il vecchio cuoio blu risuona ancora a trinità dei monti ciò è dovuto in gran misura a un incredibile sistema di acustica divina grazie al quale scopriremo voci e melodie che ormai nessuno ascolta per quanto giriamo la testa dall'ultimo gradino dell'augusta scalinata proprio nello stesso segmento dove la maliziosa balaustra conta ventitré colonne e a un tratto piomba da un obelisco appuntito sulla grande terrazza (attraversata sempre da un bambino come un anello senza padrone i capelli biondi al vento la voce totalmente bianca) e guardiamo a sinistra in basso verso il tramonto di nuovo ma ora più vicino a noi quasi a portata di mano appena a un tiro di schioppo che cosa vediamo? un secondo sole più piccolo e luminoso di quello solito e che si china piano piano di nome keats un terzo sole piccolo come un bambino con i capelli biondi al vento di nome shelley entrambi inglesi e puri bambini poeti che l'eternità ha rinchiuso in uno stesso crepuscolo latino insieme tutti e due e mai divisi né dalle donne né dalla gloria né dalla stessa terra scelta dolci poeti di albione dormono nudi ancora? gli esteti in un'alcova di roma perfetta coppia senza vita che ancora mormora una divina melodia che nessuno più ricorda?
Da “Di stanza a Roma”, 1952. (Edizioni Ponte Sisto, Roma 2007, a cura di Martha L. Canfield)
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gian piero stefanoni
- 14/03/2014 11:20:00
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grazie a te Maria, che bella cura hai e ti dai della bellezza.. nella capacità di commuoversi una vitalità che resiste.. tra laltro Ode su un urna greca è la poesia del mio cuore.. un abbraccio
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Maria Musik
- 13/03/2014 07:00:00
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Caro Gian Piero, grazie per questa meraviglia. Ultimamente, quando leggo simili meraviglie, mi concedo il pianto. Sì, perchè ciò che non trovo nel quotidiano agire, la "corrispondenza" che mi viene negata dai consueti rapporti ed incontri, lo trovo nella poesia. Ecco, ad esempio, ho una risposta allultima domanda: "gli esteti in unalcova di roma perfetta coppia senza vita che ancora mormora una divina melodia che nessuno più ricorda?" Io li ricordo, li amo e, spesso, li visito. Me ne vado al Cimitero Acattolico (che adesso è ammantato di pratoline e viole), mi siedo su una panchina e leggo o, assorta, Li ascolto ancora parlare damore e dolore. Una delle tante gioie che mi concede Roma.
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Roberto Maggiani
- 12/03/2014 23:04:00
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Grazie Gian Piero, non conoscevo questa bella poesia, ma forse neppure i romani la conoscono, ora la spargo un po.
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Gian Piero Stefanoni
- 08/03/2014 13:30:00
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L’8 marzo 2006 se ne andava a Milano, all’età di 82 anni, Jorge Eduardo Eielson straordinaria figura di artista peruviano in una commistione di generi che ne hanno caratterizzato la singolarità della ricerca sia in poesia dove nell’ innamoramento pieno l’incontro con la cultura europea si lega (come nell’amico scultore Joaquin Roca-Rey) ai miti e alle risonanze della terra d’origine sia in campo pittorico i cui lavori, apprezzati ovunque e segnati da originalissime e personali interpretazioni delle tracce più avanzate delle arti visive del novecento (tra cui ancora nel segno di un legame mai reciso con l’ancestralità delle proprie risonanze, la ricreazione del khipu, l’antico nodo della civiltà incaica) sono presenti in molte delle gallerie più importanti del mondo. La poesia che qui presentiamo è tratta da “Di stanza a Roma”, uscita nel 1952, testimonianza preziosa del periodo romano (dal 1951 al 1967), che trova nei versi per la scalinata di Trinità dei Monti, nel richiamo ai cari Keats e Shelley, l’omaggio a quella gioventù di creazione da lui sempre raccomandata e perseguita, e per la quale va ancora il nostro grazie.
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