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Camillo Coccione e la sua valle

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Camillo Coccione, Valle Cicchitte. Edigrafital, S.Atto (Teramo), 2004.


Autore fra i più validi nel dialetto d'Abruzzo (specificamente dell'area teatina di Poggiofiorito), Coccione si è sempre contraddistinto per l'accento lirico-elegiaco di una poesia bifronte così smarrita e radicata insieme tra le nenie e i disinganni di un età e di un presente rarefatto e bruciato entro i propri disvalori e le aspirazioni e gli accenti di un umano che pur sa della propria condizione la luce che viene da un comune e rimesso spartire. La lacerazione e la perdita nella compressione delle interrogazioni e delle aspirazioni si risolvono allora in nuova domanda, in nuova dialettica data però poeticamente per semplice nominazione, la parola nel movimento rispondente di elementi che fanno della memoria, nella sua riattualizzazione, la corda di un destino che chiede, pretende ascolto e dunque cammino nella separazione da ciò non gli appartiene. L'uomo che sembra tanto scontare il silenzio di una terra che più non risponde così ferma e assoluta di fronte a chi non sa domandare- e pur splendida nell'oscurità dei propri richiami e delle proprie ferite- ci appare sospeso tra un tempo di una corrispondenza interrotta e la fatica e il sonno di una vecchiaia pesante- che non è si badi bene solo quella anagraficamente data di Coccione stesso. Autore raffinato e potente raccoglie allora in questa località poco distante dal paese, Valle Cicchitti appunto (Cicchitte nella dicitura dialettale), le ombre e le rimanenze di un'esistenza che ancora chiama, chiede dettato nella continuità delle costruzioni e dei legami (lui tra l'altro figlio di quel Tommaso Coccione, fisarmonicista di livello mondiale che tanto ha dato lustro alla sua terra). Potremmo dire una poesia dei ritorni- seppure ogni vera poesia fa del ritorno il suo orizzonte- ma sarebbe meglio parlare in questo caso di fissazione, di cristallizzazione di voci e figure e cammini nell'indice basso di trasparenze ingolfate nel tempo, vivi e morti immobili al fiorire, nell'affetto di uno sguardo lasciato solo, murato dietro la pietra. Il canto allora, solido e altissimo, è quello di un poeta nello scambio reciproco con la propria valle, nel gelo di una neve (come nel testo d'apertura che dà titolo al libro) in cui lo sfilare di ricordi è compreso tra una pacificazione data nel mistero di un silenzio eterno e un' inquietudine per il non ritorno stesso di quei ricordi (di quei motivi che ancora tentano pronuncia nell'inarrivibilità di una luce destinata a spegnersi). In questo dualismo ben si spiega il motivo ricorrente del volo, del pensiero nell'anima affannata, agli anni di una giovinezza nel calore e nella comprensione di uno spazio che più non si riconosce per occlusione di legami- e di valori che ne erano alla base- nella velocità di una vita che fa sentire tutto il suo debito, sempre più divisa tra torti e ragioni. È tutto in questo scandire allora il prepotente riaffiorare di un mondo ingemmato entro un calore in cui- oltre che le parabole di letizia nella pazza "ggiostre di rènnele e ciele"- le stesse angosce d'oscurità ne raccontano le prossimità e le possibilità di condivisione; e di parola quindi nella narrazione di una vita e di una comunità riunita e ricordata (nella magistrale significazione che poi ne deriva) nel cuore della casa attorno al focolare, luogo e termine (ora spogliato e svuotato della sua forza non evocando più favole) riportato al centro dell'apprendimento stesso del nucleo per ricucitura e scambio, per protezione. La solidità della casa ("sgarufate da li sghegge"), nella sua dilatazione e struttura anche mentale che venendo meno ha i suoi primi effetti proprio sull' intiepidirsi e smarrirsi della parola ("buccitelle d'acque/che 'mbonne pella pelle e dentr'è mute"), e viceversa ovviamente nella perversa catena di negazioni ("lape senza fiuri,/e senza cupe, pe' sta terra secche,/dentr'a nu tempe storte"), finisce coll'imporsi quindi come luogo principe di un versificare in continua lotta contro la tendenza pericolosa ad una cancellazione insensata dell'umano cui tenta la contrapposizione di un ritorno e un mantenimento in superficie delle proprie istanze di fatica ed amore, di costruzione come detto. La dolenza di fondo non è solo personale ma d'insieme, ed è questo che più nello struggimento chiede interrogazione entro una lingua ora in rincorsa ora ferma nell'ascolto dei propri innumerevoli spiriti- che si badi bene nascono ed echeggiano da una fertilità in scioglimento- come foglie incuranti della luce dritte al mistero che debbono annunciare. Nell'attesa allora che qualcuno bussando spinga ad aprire, lo sguardo ritorna, resta fisso ad una natura che supera i confini nella sacralità di un timbro che riconosce il suo creatore ("lu Patrone"), di una voce che, in consonanza, all'invisibile si affida nella comprensione di un tempo che ha bisogno dei vivi come dei morti. La poesia dunque come custodia di una veglia ininterrotta a vincere nella circolazione fantasma degli affetti i morsi di un'esistenza assente, di un'annunciazione sempre più mancata, nascosta a "a ppiagne pe' sta terre di peccate" una solitudine che il moderno sembra muovere per amplificazioni, incontinente alle angosce delle proprie crepe. Ed è qua, da queste crepe, della memoria e del presente, che con sapienza la spinta si scioglie in preghiera per una terra di morte che non ha speranza "pe' sti murrame sfaste di silenzie" nell'inquieto domandarsi "chi darrà la voce a sti parole,/chi scrivarrà la storia di sti fronne/ a nirvature stucche, senza forze". Come il rosario che in "A svacarà' na crone che camine" che nell'incedere risarcisce finalmente d'amore il bambino del suo dolore, così nell'incarnazione di una poesia ora dolcissima ora nel groviglio delle proprie litaniche intemperanze, Coccione sembra mostrarci nella fede dei padri (in un mondo contadino dove tutto è al suo posto "p'aritruvarte nu ciele serene") ancora la via possibile per la comprensione di un tempo che non lo è. E di nutrimento inoltre come per quel cuorepulcino che attende fuori dalla finestra di essere sfamato proprio dove maggiore è la mancanza "pe' st'òmmene di fije viulintite,/pe' st'ommene di fijie maje nate".

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