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E le parole solleticano

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Resto qui per sempre.

Aveva pronunciato con fermezza. Il dito sul bicchiere di vino, lo sguardo nel vetro, il piede penzoloni dalla sedia. Il sorriso smunto. Quanto tempo aveva aspettato di sentirsi dire che qualcuno sarebbe rimasto per sempre. Così il trillo del forno aveva interrotto qualcosa di inaspettatamente nuovo. Una sensazione di sazietà e irrequietezza. Se non fosse vero. Se stesse scherzando. Se tutto scoppiasse in un momento. Se adesso il vino cadesse e se lui andasse via per sempre. E invece era lì e alzava i suoi occhi neri per cercare altri occhi, per chiedere un martello per rompere quel silenzio. Perfino il pollo nella pirofila urlava nel silenzio di quella notte. Aprì di botto il forno e tirò fuori le patatine sorridenti. Fece finta di scottarsi e le scaraventò sul piano cottura. Ma colse anche l’occasione per rompere l’unione di quegli occhi senza altre parole. Quante parole in quello sguardo. Quante volte gli avrebbe detto: ‘resta qui per sempre’. Quante volte gli avrebbe detto: ‘Sono felice anche di guardarti soltanto per un altro giorno’. Quante volte avrebbe accarezzato la sua barba. Quante volte avrebbe toccato il naso col suo dito. 

Mi versi del vino?

Ma non hai sentito? Resto qui per sempre.

Il rossore le bagnava le gote. Tuffava le sue parole nella Divina Commedia, nelle indecisioni e nelle insicurezze di tutta la sua vita. Eppure altre parole non uscivano. Un’insolita rabbia tramutò una bella frase in qualcosa di terribilmente fastidioso. Le faceva piacere, ma non lo voleva dare a vedere. Perché temeva di essere troppo fragile, di sentirsi nel pugno nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto schiacciare le sue emozioni da un momento all’altro. Preferiva nascondersi, correre dietro ad aquiloni inutili di parole e rimanere indietro. Sempre indietro. Sempre alle spalle di qualcuno. Coprirsi. Senza puntare in alto. Guardando in basso, vivendo sullo scivolo appollaiata invece che lanciarsi col vento tra i capelli. Aveva passato la sua vita seduta su una moto che non era mai partita. Così il pollo si bagnò delle sue lacrime. Tentò di soffocare il respiro nel grembiule e un abbraccio la colse impreparata. Quell’abbraccio che aveva amato. Quell’abbraccio che aveva sognato. Per tutta la vita.

Mi devi scusare, parlo così tanto che poi dimentico le parole quando sono felice.

Chiacchierava tanto. Così tanto che proprio non la tollerava. Aveva imparato a guardarla negli occhi senza impegnarsi a comprendere quello che diceva. Si divertiva a vedere quella luce che zampillava dalla pupilla alla cornea. Sarebbe rimasto ore a puntarle gli occhi negli occhi per vederla spaventata distogliere lo sguardo per non fargli capire quanto fosse innamorata di lui. Non sapeva cosa voleva nella sua vita, ma avrebbe fatto di tutto per non eliminarla dai suoi giorni e dalla sua geografia. Lo sapeva da anni. Lo sapeva da sempre. E non avrebbe fatto niente altro che tenerla stretta per ore, mentre la curva della sua schiena diventava sempre più tonda e lanciava sbuffi e lacrime che  scivolavano sulle guance rosse. Nessuno dei due si era posto problema dell’esagerazione delle loro parole, delle loro scelte. E quelle lacrime erano soltanto il retaggio di quella struttura mentale che si chiama razionalità. Domani sarebbero giunti in fila i ‘come’, i ‘perché, i ‘ma’.. Ma in quell’istante quella frase risuonava come un grido d’allarme, un canto di libertà dietro le sbarre.  Cadde a terra a ginocchioni. I singhiozzi erano troppo forti, le emozioni erano diventate terribili pezzi di vetro ficcati nel suo cuore. Non poteva essere vero. Era il solito incapace. Non comprendeva il senso di quelle parole in italiano e le buttava fuori così, tanto per parlare. Eppure entravano dritte per quella via che era proprio la strada della sua felicità, dei suoi desideri e delle sue aspettative. Impossibile. Nella vita nulla è così semplice. Non si pronunciano le cose e ci si sente felici. Non poteva essere così vicina la felicità. E una risatina beffarda le solleticava l’orecchio destro. Rideva. Rideva di lei. Una carezza le arrivava al seno e risaliva fino ad asciugarle quella impertinente lacrima che scendeva silenziosa e fredda dall’occhio sinistro.

Conosci la mia storia. Non potrei stare in nessun’altra parte del mondo. Perché piangi tanto? Pensi ancora che io ti prendo in giro?

L’uso del congiuntivo era troppo difficile per lui. Aveva smesso di piangere, aspettava soltanto che la morsa dei singhiozzi andasse via definitivamente. Tuttavia manteneva la testa bassa e stringeva la mano che le accarezzava piano il viso. Era un bimbo. Un adorabile bambino con gli occhi scuri e la carnagione del colore del pane ben cotto. Un piccolo uomo eternamente bisticciato con la lingua italiana.

 


 Elvira Scognamiglio - 27/08/2012 19:51:00 [ leggi altri commenti di Elvira Scognamiglio » ]

La mia scelta narrativa è finalizzata -come tu stesso dici, caro Giacomo- a ’coprirmi’ e ad ’essere di moda’. Ho notato con mio rammarico che pochi testi vengono letti con un’assidua frequenza e che i più cliccati necessitano di colpi di scena fin dal titolo. Potrei cambiare stile, ma per il momento preferisco arrampicarmi così sulle scalette della recherche poichè Umberto Eco costituisce soltanto una parte della narrativa italiana. Certo, una parte autorevole. A me, però, piace riproporre il minimalismo....

 Giacomo Colosio - 27/08/2012 13:29:00 [ leggi altri commenti di Giacomo Colosio » ]

Sempre indietro. Sempre alle spalle di qualcuno. Coprirsi. Senza puntare in alto.
Ecco, sono stato anch’io attratto da questo modo di scrivere come se le frasi fossero secche raffiche, disgiunte, frecciate nella testa del lettore.
Poi ho cambiato idea e sono tornato, almeno in parte, al classico. Frasi brevi d’accordo..., sono di moda, ma Coprirsi punto è davvero eccessivo. lo fa notare anche Umberto eco in una sua bustina di minerva.
Invece le qualità di narratrice ci sono...è la forma che , a mio parere, andrebbe cambiata, anche perchè si vede lontano un miglio, anzi si legge, che potresti farlo.
Comunque e nonostante tutto, i miei complimenti. ciaociao

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