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Sillabario senza condono

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Esordio importante, significativo, maturo questo di Giorgia Deidda, giovane universitaria pugliese. Entro una scrittura tagliente, incalzante che nulla scarta del suo doloroso interrogare, del suo laminato colpire e colpirsi in una malia dell’anima che ha nella paralisi il motivo del suo sfuggire, della sua mortificante disattesa, smuovono questi versi anche un doveroso riflettere sulla natura stessa della poesia, sulla sua terapeutica tensione nello scioglimento, o nell’alleggerimento di quelle distonie di separazione che finiscono coll’infingerci, coll’imprigionarci nei demoni, antichi, delle nostre negazioni. Infatti quello della Deidda è il racconto del corpo a corpo con se stessa, con le proprie irricomponibili fratture ad una mente, ad uno spirito che appare interrotto tra malattie e timori del mondo ed aspirazioni di cielo, di fecondità cui l’altro però appare non compreso, l’altro causa e vittima dei suoi sgomenti nell’eterna notte dei suoi scoperti fantasmi. Così questo sillabario (e certo non poteva esserci titolo migliore) ha la misura esatta di una perdita, di una mancanza (di se stessa, del mondo, degli altri come detto) che ha nella dinamica perfetta del suo osservarsi l’espressione di una lotta con cui forse, a volte, volendo, si può solo venire a patti, la parola racchiusa tra ininterrotto fluire di desideri, incisioni, allarmi e l’essenzialità di un versificare che nulla può e concede rispetto alle logiche delle proprie rimostranze. Uno sguardo il suo in disputa con una bellezza (negli intarsi degli spazi, nelle chiamate della volta) forse insufficiente perché mortale, perché come lei imperfetta (nella “anemia di un universo che non trova più il suo infinito”) e indifesa a quel continuo fluire cui solo l’amore a tratti può sostenere esposto com’è anch’esso al blocco dei suoi sgomenti. Ed è una scrittura molto femminile nella registrazioni dei suoi effetti, corpo e psiche nei sintomi di un’ombra cui non sfugge, nelle sue parole interrate e prive di sogno, nella spaccatura del “loro imprendibile avvertimento/che vaga nella mente come un confine/e non riunisce “. I riferimenti ci ricorda nella acuta postfazione Alberto Burina sono quelli dell’amata Rosselli, della Plath, della Sexton seppure la Deidda somigliando esclusivamente, autenticamente a se stessa in una metafisica della memoria, di “triste fossile”, della cui prigionia restando vittima non si libera in un dettato (in questo d’accordo con Burina) sovente claustrofobico, il lettore incalzato, risucchiato ma anche il più delle volte fortemente respinto entro un testo sulla cui natura, bisognerebbe interrogarsi e interrogare più approfonditamente. Una parola poetica infatti conosciuta, frequentata e restituita molto bene, e dunque ininterrottamente valida, che corre il solo rischio alla lunga però di parlare solo a se stessa nel sintomo del malessere che racchiude (in questo allora funzionalmente valida), in eccesso allora non sempre in quell’apertura di cui la poesia comunque è portatrice (la scrittura poetica, è vero parlando di se stessa ma una volta detta deve dirci). In questo caso, è bene sottolinearlo, però avvenendo solo in parte, la Deidda sulla scena con la verità di un’ autrice alla quale auguriamo tutta l’attenzione che merita e che andiamo infine a restituire nella consapevolezza di una luce che tenta nuovi battesimi: “C’è una vita dentro di me./ È l’assenza, non preghiera, delle cose lontane./ È il guardare la pellicola da vicino/ e toccarne gli arabeschi e le intarsiature,/è godere della bellezza nascosta/nelle cose dimenticate,/è guardare/ senza rimpianti i propri occhi, è guardare/ quelli degli altri senza più paura”.

 

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