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Ostinato

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Un ostinato restare, avanzare, irretire e irretirsi nella capacità sinestetica di una parola aperta, felice, libera ma anche raggrumata ai colpi di un ritornare, di un sentire provato, a tratti vinto procedere dalle maglie di una realtà ora ostile ora seducente, ora lontana dalle sofferte, dolorose, urgenti richieste umane. Tutto questo ma non solo si leva nel canto di Cinzia Della Ciana, avvocato aretino, autrice alla sua terza prova poetica. Nell’algida geometria delle dinamiche, delle dissimulazioni, di un dire e un vivere stretto tra i denti, il canto allora, aperta la gola, ha il senso di mantenere aperta la vita, di rimandarla, di tenderla là dove nella storia, nel suo passare inciso che gli viene nel dialogo, umano, umanissimo tra costruzione e natura ha la sua eterna e rimessa possibilità, la sua risonanza della carne, dello spirito certo nel girotondo di un passo cui la parola come detto volentieri, ma soprattutto necessariamente si accompagna. Ed è così tutta una discesa tra limbi dell’animo e sue risalite, affondi nel mare dei nostri quotidiani e metafisici esercizi e di mari reali, di monti nella risonanza inquieta di memorie e ritorni strappati al loro rivelato esporsi a dire anche dai luoghi di un’Italia carezzata e bramata nell’archeologia di un popolo più che santo o navigatore vivo, meravigliosamente e drammaticamente vivo nell’espressione artistica, politica, sociale del proprio tormento. Il golfo ligure, la costa campana, Roma e il centro Italia nella malinconia dei suoi laghi ma pure ritratti di uomini e donne colti nella spigolosità del loro perenne movimento, di una storia lavata col sangue (“sindone/impelagata di morti”) cui fa sempre, ancora, da contrappunto nella passione il casto ma combattuto fiorire di una natura cui poter apprendere e guardare nel ritorno di un metro sorgivo perché melodia, ecco nella spinta di una passione tutta di donna, tutta carnalmente femminea, la direzione di una scrittura che non rinuncia nutrendosene delle sue più intense e pressanti consonanze. Che trovano luogo allora in un racconto che ha la veste innamorata della suite, della “composizione strumentale in più tempi, ciascuno dei quali costituito da un tipo di danza ora vivace ora allegra, ora solenne in una alternanza ritmica di particolare spigliatezza”, riportando da dizionario la definizione perché nel rischio della banalità e della caduta come spesso avviene la Della Ciana riesce piuttosto felicemente nella coinvolgente, ora ebbra e dolente ora sospesa ora penetrante provocatorietà del verso, di una struttura polimetrica, sovente breve, ricchissima di attorcigliamenti, risonanze interne e neologismi, di carezza liricità nella capacità della parola di sentire e spezzettare in piccole consonanti di riverbero e di suono l’immagine nella visione riuscita- e unita- dei sensi. Nominiamoli allora almeno alcuno di questi tempi, consigliandone caldamente la lettura: andante, adagio, allegretto, moderato, lento, eroico, fugato, marcia, narrante, mesto, fiorente, sospirato, barbaro, pastorale, grave, scherzo. Sono solo alcuni certo tra tanti ma potrebbero essere infiniti come infinite le accezioni del temperamento e dell’animo umano, la musica (cui dedica tra le altre quasi una intera sezione) dunque a dirigere una riflessione ma soprattutto uno scrutare, un tendere ostinatamente acceso appunto, ostinatamente in gioco e al sovvertimento- di sé principalmente- nella verità di uomini e donne o di un Dio che ci attende. Di donne ancora, soprattutto, nel paradigma del collante di figure che soprattutto nella parte finale trovano racconto. Santità non di immaginetta evidentemente ma di torsione, come la Cecilia della Basilica romana o della Maria del Della Robbia giovane ancella ancora ignara del peso che le cadrà addosso, pronte sempre al brulicare del seme perché libere nella eternità della scelta e non vinte, da una menzogna- tutta maschile evidentemente- di una mano chiusa che offende e colpisce in un modo o nell’altro in quel luogo e destino di “riservato piacere/ terra dovuta” (si veda il riuscitissimo testo dedicato a “La muta” presso il Palazzo Ducale di Urbino in cui la donna ritratta urla in chi la guarda il suo disconoscimento per ciò che di lei è stato dipinto: non moglie, non figlia ma “sdegnosamente la bella ribelle” a cui dalla Corte fu data prigione “da un qualsiasi Raffaello”). Andando a concludere, abbiamo qui riportato solo una più che parziale lettura di un dettato ricchissimo, fermo, lasciando ai lettori nel gusto l’accesa densità dei suoi simbolismi, dell’altrove in noi nelle sue risonanze giacché come è ben scritto non c’è niente “di laico/ in questo limitato spazio”.

 

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