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Per Elio Fiore, in ragione della sua luce

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“Resta saldo e, se puoi,
prega, prega per tutti”.



Il 12 luglio del 1935 nasceva a Roma Elio Fiore, finissimo e raffinato poeta nel cui percorso appartato è scritta anche tutta una parte non secondaria e sofferta di un novecento doloroso ma sollevato- a partire proprio dalle memorie non rimosse di una Roma tragicamente ferita- entro una misericordia di incontri e di scrittura. Per quanto mi riguarda ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente attorno al 1998; non ricordo la data precisa, ricordo però la nitidezza che accompagnò quell’incontro, quella mattina fin dall’approssimarsi alla sua casa-rifugio tra la Gianicolense e Ponte bianco, in una parte della città che ora, per domicilio, mi è molto cara, mi è molto vicina. Ci presentò un caro amico comune, lo storico dell’arte Tommaso Casini, la cui famiglia gli era accanto da tempo. Ho sentito subito, tra quelle stanze, la stretta di una ferita invisibile che cristianamente condivideva con noi, in una malinconia di sguardo reclamante per tutti una carezza buona dal Padre. Questo ci accolse e questo ho sentito anche nell’estate del 2002 quando ho saputo della sua scomparsa in una notte in cui, solo agli uomini, se n’è andato alle sue anime. Giacché, come accennato, in Elio convivevano i diversi volti di un’Italia e di una Roma nello spirito e negli affetti smarrite, colpite seppur sempre umili, miti, buone. Nelle parole con cui mi si raccontò, grazie a una capacità affabulatoria davvero rara, mi ha dato i suoi occhi e il suo mistero di ragazzino del ’43 quando si ritrovò di fronte alle famiglie strappate via dal ghetto, in quell’esilio, in quella vastità del male che non lo avrebbe mai più lasciato. Mi ha dato immagini e voci di poeti a noi tutti cari, a lui prossimi per frequentazione e affetto, amore ricambiato. Soprattutto, a me giovane poeta quasi agli inizi, mi parlò di Ungaretti (mostrandomi la foto, a lui stesso donata, che ritrae il vecchio d’Alessandria con Paolo VI in Vaticano), di Montale (ma poco, curiosamente) e di Sbarbaro. Di quest’ultimo mi dimostrò di avere appreso uno spirito della poesia che è anche cura di chi incomincia, vicinanza, sprone. Come Sbarbaro fece con lui, mi ha dato ascolto, forza, valore nel tremore a cui il verso si deve affidare nell’autenticità della pena e della luce, là dove la gioia è separazione, distanza colmata. Chi crede non si perde: questo è il senso del nostro scambio e di ciò che mi scrisse a dedica dei testi che mi donò insieme a “Il cappotto di Montale”, la sua opera più riuscita (“Myriam di Nazareth” e una sua traduzione da Pound). Attorno libri, quadri, ritratti (tra i quali se non ricordo male un bella Magnani), foto sparse d’amici. Ci salutammo per risentirci qualche volta al telefono, a cui restava aggrappato in un tempo che poteva sembrare infinito, tanto il contatto che lo legava agli altri era per lui necessario, respiro d’una comune mancanza (ricordo in particolare la gentilezza che ebbe una volta con la mia cara sorella Ginevra). Tutto in lui trasmetteva carità e amore, ma anche timore, vaghezza di smarrimento, che lui, amante di Maria, volse in fratellanza, in comunione d’anima. In questo, prima che poeta, davvero uomo e cristiano vero.


Vorrei allora qui ricordarlo con l’intensa lirica (che non ha titolo) in cui raccontandosi svela l’origine della sua vocazione al canto.


Nell’orto di mio padre, sovente
rincorrevo farfalle, curavo il basilico
e il rosmarino e gustavo gli odori
dei bianchi capperi sul muro. Com’erano
altissime le volte degli Archi Felici!
Mio padre zappava la terra accanto
a una piscina bianca e azzurra di calce.
Le nuvole ubbidivano al cielo, in forme
strane, gigantesche. Ineffabili
scoperte dei segreti delle formiche!
Sulla via Casilina, sull’ampia strada
della mia infanzia, a poco a poco,
si svelavano tutti i giochi, tutti i riti.

Poi, d’improvviso un mattino
del 19 luglio ’43 tutto scomparve
e rimasi per dieci ore sotto le macerie,
abbracciato a mia madre. Non lo sapevo
ma ascoltando il suo eterno grido,
fu in quel momento che divenni poeta.

(Da “Il cappotto di Montale”, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1996).

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