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Loscura controdanza

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È un piacere poter scrivere di Cristina Sparagana e della sua poesia materica, corposa sempre rivelatoria e prossima nel nutrimento delle sue implorazioni. Autrice di rilievo altissimo, studiosa e traduttrice dallo spagnolo (ha insegnato per parecchi anni in Cile Letteratura italiana presso l'Università Cattolica di Valparaiso) la ritroviamo intatta nel canto in questi versi da un'alba ossessivamente evocata- e a tratti subita tra le insonnie e le malie della notte- e le spirali, le interruzioni del giorno nelle maglie di un male, un'interruzione diremmo ancora presente. C'è un dissidio infatti, una spina che non consente aderenza se non quella appunto di una oscura contraddanza, un movimento inverso entro una terra che ci sa sotto i colpi di una sterilità di luoghi e anime inferme. Il richiamo allora, l'evocazione a rompere l' oscurità ("tremenda moscacieca che colpisce alle spalle") ci pare allora sospeso fra gli spazi di una memoria di cari- così preziosi e ancora vivi nello scavo di una parola e di una corporeità ancora imprimente- e una quotidianità cantata nelle figure di una sotterranea mancanza, di una difficile e a tratti poco afferrabile genesi. La poesia allora diventa riappropriazione di luoghi e anima nel legame inquieto con una natura- ora non rispondente ora sensualmente orfica- cui non si chiede scioglimento ma rimessa e partecipata scrittura. Che è liturgia poi di uomini e donne, di madri soprattutto nella polvere e nella stasi di un tempo smosso da dimenticate angosce, da sentori di irricucibili distanze. Nell'umiltà di una disposizione ferita l'autrice si risolve nella dilatazione stessa del mistero, denso di annunci, di intagli,di soglie di smarrimento e liberazione, di incamminati abbandoni (ed infatti quanta meraviglia, quanta frattura nei testi dedicati alla figlia). E in particolare nella coralità degli spiriti -e delle pagine- indocili, è nell'elemento animale (uccelli ma anche cani, volpi, diciture di rettili) insieme a quello dei bambini (composti entrambi "di groviglio e di tenebra, gentili") l'illuminato eternarsi di un crepuscolo che nel suo ritorno- non nell'affondo- sa sacralmente vincersi mostrando all'uomo (come di tartaruga nel suo continuo entrare e uscire dal guscio) il bene di una continua"nuova unione/con la terra remota". ("La bambola impastata di farina/ ha spinto nell'abisso i vostri morti" dice ancora in un potentissimo verso). Così è proprio nel partecipato dissidio delle paralisi il rovesciamento stesso delle ombre, l'apertura dilatante di una notte, di una tenebra come "la grande,/la paziente nutrice" (in un dettato che via via assume nei suoi contorni anche quelli dell'incantesimo- o della sua rottura- del vago esorcismo). Il tutto poi nel supporto di una lingua forte, coraggiosamente salda a se stessa e di cui a ragione Paolo Carlucci nella puntualità dell'introduzione ricorda il "cromatismo verbale, visionario e profondo, d'altri tempi, archetipo d'alba pre-logica, densa, poematica, voce di natura abrasa e poetante". E di cui oltre alle chiare ascendenze rilkiane e pastosità latino americane tra le altre (Plinio Perilli al proposito ha sottolineato movimenti cari a Montale) ci pare anche di scorgere riferimenti, passaggi vicini ai crepuscolari in una singolarissima rivisitazione ( si veda ad esempio, tra campane all'alba e frinire di croci, quell'intensissima definizione della Domenica come "grande/ Messaggera dei morti"). Così, dicevamo, come il gheppio anche lei nella "immensa partitura del giubilo", ferma e in piedi come tutti i poeti , "alza la sua preghiera": giacché morte vera è dove non è veglia, dove non custodia. Ed è questa proprietà, infine, questa definizione stessa della vita il valore di un libro e di un'autrice a noi sempre cara.

 

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