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Ghiaccio nero

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Nel luglio del 2015 scrivemmo a proposito di Apologia del sublime, la precedente raccolta di Giulio Marchetti, di incolmabilità di distanze tra spazi di incarnazione e definizione di sé e, dunque, di conseguente mancanza- o prigionia- di una forma e di un senso nell'orizzontalità dell'amore e del quotidiano sovente respinte in uno smarrimento del respiro. E più nera, come da titolo, troviamo adesso nella sua naturale evoluzione una scrittura però in ogni verso drasticamente chiara (secondo il paradosso lucido di una coscienza sempre impietosamente vigile), composta nel bianco d'allarme di un'esattezza di negazione che davvero non può che indovinarsi nel ghiaccio dello scioglimento prima o poi certo di tutte le proprie (sempre) illusorie impostazioni. Questa infatti è una poesia dell'inappartenza, di uno stato che non consente di compiersi nell'impossibilità stessa di pensarsi concreti. Nel percorso delle tre sezioni ("Cercandomi", "Cercandoti", "Meraviglioso fallimento") il deserto è il solo paesaggio consentito in un freddo dato più per assenza di calore che per rigidità (come nella notte di tutti gli inferni); oscurità, ancora, mai negli effetti "zona di passaggio" ma "luogo di nascita" di un silenzio ogni volta subito per richiesta di luce a un qualcosa- un altro da sé, un mondo, un' ipotesi- senza risonanza per inconsistenza (un "niente" dunque). Si badi bene però mai banale anche nell'accento della lacerazione- che non è lamento, risentimento semmai di una condizione universalmente coatta- questa voce sovente tesa al delirio, come disturbata da un eco di paralisi, di contemplazione dell'altro come fosse abisso- la sua bellezza pari alla propria pena. D'altronde se quella scia d' immenso (vedi l'omonima poesia) che piega l'orizzonte non è che "coda del destino/tra le gambe", allora nulla può proteggere dalla caduta, della vita la mimica sfaldandosi "nell'attesa di una carezza agognata". Il giorno, evanescente già al suo apparire di sconfitta, chiama ad artigliarsi al soffio che può dar respiro (inscenare la danza), l'altro solo, forse- ancora, sempre, comunque- "ponte tra vita e morte", conferma della propria presenza, veglia, e pur nella medesima labilità, custodia oltre la visione toccata della tenebra (vedi tra le altre la coraggiosa "Ipomea blu"dove gli occhi amati nel germoglio rispecchiano la luna). Eppure, forse dicevamo, giacché Marchetti non può che procedere nella consapevolezza di illusioni che ora per sopravvivenza si infligge ora rifugge. Così quest'amore così tenacemente carezzato , nuovamente ogni volta , come la vita essendone figura, sembra chiudersi all'esito inevitabile dell'impossibilità e della polvere (già accolta poi da una pelle che l'attende morta- "Bellezza"), il cielo angusto in tutto il respiro dato nel volo per arrivare all'amato ("Cuore"). Fuggire però da un paesaggio dove la somma continua della neve non consente fioriture, e la solitudine si impone nel solo "spazio/concesso all'oscurità", appare vano. Resta, nell'inutilità di un tempo che ha il suo ricatto nell'oblio, la parola come forza di resistenza d'una visione che tenta il divincolo dal buio; ogni giorno una registrazione, ogni giorno nella libertà del sogno in un "alfabeto del silenzio" che sa della terra l'accordo col sole nel poco nutrimento, di "goccia nel deserto che non vuole morire". Di conseguenza il cuore pur perso, nella sua scrittura, reclamandosi ancora dalla terra riesce ogni tanto a battere ancora nell'attesa di "una pioggia di stelle/ a vene aperte". Lirica allora, in conclusione, la risposta più umana di una disposizione a tratti cieca per oppressione. Ed è questa è la direzione in cui più ci riconosciamo.

 

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