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Felice, evocativo, pungolante l'esordio di questo cinquantenne romano per le raffinate Edizioni Il Labirinto. Il tema, subito chiaro dal titolo e dal disegno di copertina, è quello calcistico il quale, seppur non particolarmente frequentato in letteratura (e tanto meno in poesia) ha dei precedenti più o meno illustri come ricordato da Fabio Ciriachi nel commento finale. Dei nomi citati di Pasolini (che nell'ulteriore sottolineatura oltre a praticarlo ne riconobbe lo statuto di vero e proprio linguaggio), Camus, Handke e ancora per l'Italia di Saba (con le sue famose cinque poesie), certo è bene ricordare quello di Fernando Acitelli che con "La solitudine dell'ala destra" ci ha consegnato, rompendo come si disse allora un tabù, nel 1998 per Einaudi uno dei testi sicuramente più intensi e pregnanti su una passione, un gioco, una misura che pur nel favore planetario paga ancora in parte una sua irraccontabilità di fondo (in questo anche nel cinema ad esempio o in musica, alla memoria riportando "Ultimo minuto" di Avati o la classica "Leva calcistica del 68" di De Gregori, ovviamente). A questi nomi è bene aggiungere però ancora quelli di Osvaldo Soriano e di Eduardo Galeano che in "Splendori e miserie del gioco del calcio" ha tentato felicemente un resoconto particolareggiato di questo sport e per restare da noi di Elio Filippo Accrocca ( “L’arbitro” ad esempio, in "Videogrammi della prolunga", come metafora sulla propria coscienza durante i festeggiamenti del secondo scudetto della Roma nel 1983). Ferri non stona tra questi nomi, assolutamente, dimostrando una conoscenza specifica che viene dalla pratica in una resa connotata di grazia per dolenza di carne, e di spirito, nell'irraggiungibilità di una condizione che nella figura dei suoi interpreti è di un'umanità tutta nel gesto che solo, per bagliore, si illude nella riuscita di poter essere e impetrarsi. Ed infatti il segreto che fa cari questi versi è l'ordinario anonimato dei protagonisti a cui in qualche modo ci accomuna nel suo piccolo discorso sul mondo. Resterebbe deluso dunque chi tra queste pagine cercasse nomi noti di fuoriclasse o aloni di compagini passate alla storia (il solo riconoscimento, che viene dalla data, è quello relativo alla vittoria del mondiale spagnolo a dire nella nota personale di prima giovinezza quel "grido all'alba/in cui il sentire sembrava il mondo"). In realtà, "col suo lessico e la sua sintassi come metafora dell'esistenza e di occasione per parlare di noi" (così come evidenziato nella risvolto di copertina), questi versi ci restituiscono in un rettangolo di gioco che è dapprima un luogo della mente un intreccio sospeso di anime tra tempi (che sono quelli ordinari, o straordinari del gioco secondo gli esiti) e spazi (nella dilatazione infinita del terreno tra luoghi deputati dalle linee appunto e le improvvise folgorazioni delle zolle) dei propri riconoscimenti o misconoscimenti, come il più delle volte in effetti malinconicamente- e più o meno teatralmente- avviene nella ricerca quasi anarchica di un dettaglio insieme rigenerante e salvifico. Ecco allora tra gli altri, un campionario vastissimo di centromediani, di terzini dai polmoni inarrestabili ma sfortunati o distratti, di portieri che proteggendo "lo spazio comodo ai sogni" non sono imperatori ma "maglia come gli altri", di centravanti smarriti alla rete (o, come in uno specchio, di bomber a cui manca solo il suggello del gol nel minuto che non esiste- "settantasettesimo sessanta secondi"- per la consacrazione dell'eterno e dunque, per questo, anch'essi restando incompiuti), di panchinari e di sognatori come nella vita sempre per azzardo fuori gioco, di esordienti senza futuro e di giocatori all'addio. Eppure, si badi bene, non si tratta quella di Ferri di una facile epica di antieroi ma di partecipata cronaca d'uomini semplicemente ritratti, fermati tra l'istante di un gesto e suo compimento, nella riflessione breve- e a tratti metafisica- dell'interprete dove la possibilità dell'impresa vale l'impresa, o è già l'impresa nel mentre di stagioni cui la storia, piccola e personale, collettiva e di bandiera, può determinarsi in un mentre di appassionate ed agognate rincorse, il fallimento, lo sproposito sovente aleggiando su destini e classifiche. Ed allora se, come in "Minuti di recupero", l'inizio di un tempo nuovo in "un pallone non più vivo" può incrociare il sogno, la meta, così è nella scrittura del corpo, nelle intuizioni delle sue recuperate e poi addomesticate intelligenze (colpi di tacco, pallonetti, diagonali e tiri dai sedici metri ), il dettato di un prodigio che si sa vicino nella meraviglia di una punteggiatura inseguita, a spezzare, a "colmare" quel vuoto che viene dall'attesa compiendola (si legga al proposito "Gol vivo"); i lanci,i tiri meteore sovente a tagliare riflessi lunari , parendo sempre di esser visti dal cielo . Di contro, però, è nell'errore anche la misura di protagonisti cui proprio per fallibilità è facile per noi e per Ferri stesso (cui proprio non riesce la simpatia per gli abatini) appartenere ( vedi "Autogol" dove nell'impossibile previsione "il pallone diventa/ordigno di effetto e malinconia", il giocatore nella corsa come se non avesse "più coscienza della struttura del vento"). Tracce queste che tentano di sciogliersi tutte proprio nel motivo della linea di fondo come misura del respiro entro una corsa che si vorrebbe senza fine come a vincerne il limite, spostandolo nella non accettazione e nel "desiderio improvviso di un solo istante/ in cui cogliere tutto/ il senso di una vita". Dolenza di una salvezza che però si sa, improbabile, "in quel punto tracciato oltre il terreno" ed a cui il gioco come la poesia si affida in un altrettanto improbabile ammaestramento. Nella leggenda della posizione eretta guadagnata dall'uomo "tentando di calciare/ una palla di rettili" , del gol come prima parola pronunciata "dinanzi a un tramonto di dinosauri", Ferri infatti vorrebbe costruire "un pallone ideale/quello che tutti saprebbero colpire/con traiettorie romantiche". Così nell'analogia tra gioco del calcio e procedere e pensare poetico, tra il tempo e lo spazio di una "corsa a vuoto," sembra poter iscrivere un "ultimo momento in cui cogliere/gli angoli acuti di una vita", a superare, a vincere quell'occhio irridente del giudizio che rischia di smarrire nel rimarco stesso delle sottolineature quella essenza stessa dell'esistenza- che in sé è già poesia- ad accettarsi e a compiersi senza "indugi/ sull'inciampare di una sillaba" ("Se i calciatori fossero poeti"- ci dice infatti a concludere- le traiettorie sarebbero parole/i gol sillabe veloci" (..) "ché campo del poeta è l'orizzonte/la prima strofa calciare", tutto per "un mondo di suoni per esultare/con versi del pubblico in metrica"). Intanto, a rappresentarlo e a rappresentarci, resta nella consegna la malinconica, bellissima, figura di Laszlo, atleta colto nella nostalgia di tutte le inarrivabili mancanze, impenetrabile nell'enigma ("il fermo desiderio di non aggiungere/altra tristezza agli occhi"), mai nell'indugio dell'esultanza al gol (che è sempre "la fine di un racconto") e che in qualche modo, seppur nell'illusione, sembra acquietarci con lui nella memoria a "quegli attimi luminosi interminabili/ come ad un verso dimenticato/ che attraversa il tempo incide i giorni/malgrado tutto sia abitudine".

 

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