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Il cuoco stellato

di Alessandro Carnier
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Pubblicato il 27/09/2021 08:40:55

 

 

Il cuoco stellato

 

Era una di quelle mattine di metà agosto, che pur essendo calde e assolate già facevano presagire la fine dell'estate. Avevo posteggiato l'auto davanti al lago e stavo montando il mulinello nella canna da mosca, venivo in questo specchio d'acqua per tre buoni motivi: era un bel posto ed era vicino a casa mia, e volevo allenarmi provando qualche lancio con una coda di topo da poco acquistata.

Il lago lo frequentavo da quand'ero ragazzo, e a quei tempi ci potevi fare anche il bagno. Purtroppo la sua naturale purezza era stata deturpata da scarichi inquinanti, a questo depauperamento del luogo aveva contribuito anche l'aggiunta di vari arredi tipici dei parchi: panchine, tavoli, attrezzature fitness e ricreative e una struttura in legno, che avrebbe dovuto nelle buone intenzioni fungere da ristoro per i frequentatori del lago, ma che dopo varie gestioni negative era rimasta chiusa e abbandonata. Tutti elementi che rendevano più vivibile il posto, ma avevano reso l'ambiente artificioso.

Si era insediata per ultima un'associazione sportiva di canoisti, con relativa baracca in legno, che aveva riempito una buona metà del lago di zatteroni e boe. Il risultato era per me desolante, l'orizzonte del lago che un tempo era uno specchio d'acqua libero e incontaminato ora era disseminato da queste strutture dai colori sgargianti che lo facevano sembrare a un parco giochi acquatico, o a una tinozza piena d'acqua con barche e paperotti di plastica colorata per farci giocare i bimbi. Inoltre, ai primi frequentatori del lago indigeni del luogo si era sovrapposta una folta schiera di extracomunitari di diverse etnie, rumorosa, che rendeva impraticabile il parco nei giorni di festa, oltre che nei periodi in cui vi si praticavano chiassose sagre a base di salsicce e carne di ogni tipo alla griglia, che se avevi la malaugurata idea di parteciparvi dava il voltastomaco solo annusare l'odore di fritto che proveniva dalle cucine e che rendeva l'aria irrespirabile per giorni in tutta l'area del parco. Mi rendevo comunque conto che probabilmente ero l'unico a pensarla così, forse la maggioranza dei frequentatori del lago ne erano entusiasti.

 

Finito di montare la canna, presi il guadino e la borsa a tracolla e mi avvicinai alla sponda del lago, quella deserta, e dopo aver legato una ninfa, iniziai a lanciare la coda di topo in avanti cercando di non perdere il ritmo mentre caricando la canna facevo progredire il finale sempre più in là sullo specchio d'acqua di fronte a me. Dal momento che alle mie spalle non vi erano ostacoli: alberi e cespugli, provai un overhead (lancio sopra la testa), poi in successione il lancio rovescio, e per ultimo il rotolato. Esercitandomi, piano piano mi rincuorai, era da tempo che non pescavo a mosca, ma per fortuna dopo l'imbarazzo iniziale, rimasi soddisfatto dagli ultimi lanci fatti. Passata una mezz'ora vidi un branco di cavedani che si aggiravano all'ombra di un grosso salice a ridosso della riva. Sostituì la ninfa con una più piccola adatta a questa specie di pesci molto sospettosa. Feci dei lanci mirati, e a uno di questi segui lo strattone deciso di un pesce, che però non si concluse con una ferrata.

I lanci che feci dopo non sortirono più alcun effetto. I cavedani seguivano la ninfa per un breve tratto e poi prendevano un'altra direzione, dimostrando un disinteresse totale per il piccolo artificiale. Avevo la sensazione che avessero comunicato fra loro segnalandosi il pericolo di essere catturati. Questa sensazione si avverte spesso, dopo una ferrata con qualsiasi tipo di esca è difficile che né seguano altre, come se i pesci memorizzassero l'accaduto. La spiegazione più ovvia e che addentato l'artificiale la prima volta, e appurato che non è commestibile, il pesce che non è per niente stupido, difficilmente si fa ingannare una seconda volta. Spesso quando ho questa sensazione sostituisco il tipo di esca o la tecnica di pesca. Solo in poche e indimenticabili giornate le ferrate si susseguono, ed è per questo motivo che rimangono esaltanti nei ricordi di pesca. Lanciavo da circa un'ora e con il braccio ormai stanco decisi di smettere, ma non prima di aver provato a sondare una zona d'acqua profonda antistante a una vecchia chiusa che sapevo popolata da grosse carpe, tozze tinche con la livrea verdastra sul dorso e più chiara che sfumava al giallo sul ventre, e grossi cavedani.

Quando mi avvicinai alla diga vidi un signore dal fisico robusto e i capelli grigi e lunghi che subito mi disse: “Niente?”

“No, solo un'abboccata.” Risposi.

“Ho visto, l'osservavo mentre lanciava. Provi qui, è pieno di carpe e cavedani. Io ci vengo ogni giorno.”

Non mi piaceva pescare mentre qualcuno mi guardava. Tuttavia il personaggio dai modi distinti e affabili mi convinse a fare qualche lancio nel totale disinteresse di cavedani e carpe.

L'uomo dopo avermi lasciato fare commentò: “A questi gli piace il pane, da noi usiamo il trecciato che ha la mollica elastica, che è ottima per avvolgerla all'amo, e molto resistente e non si sfalda in acqua, deve vedere come la mangiano.”

“Sì, lo so, ma non ho né il pane né la canna adatta.”

“Sa io sono ligure, e da noi le carpe e i cavedani li peschiamo con il pane. La pasta li attira di più, delle mezze maniche ne vanno ghiotti. La fai bollire e ci aggiungi un po' di vaniglia, è micidiale. Aspetti forse ho ancora un po' di pane, le faccio vedere.”

L'uomo si allontanò, ma non vedendolo ritornare, presi l'attrezzatura e dopo averla caricata nel bagagliaio, me ne andai.

 

Tornai più volte in quei giorni, quando avevo la mattinata libera, portando con me anche qualche lattina di birra. Il signore che portava un cappello a larghe tese, probabilmente per meglio ripararsi dal sole, era sempre presente, seduto al solito tavolo da picnic di legno. Io seguitavo a lanciare sulla solita riva del lago, e lo potevo vedere leggere il giornale con la coda dell'occhio, o conversare animatamente con i guardiani del parco antistante al lago, o con qualche passante. Pensai che dovesse abitare in una di quelle villette a schiera poco distanti dal lago, che avevo sempre criticato, erano state edificate pochi anni addietro, rovinando inesorabilmente il paesaggio che faceva da cornice al lago, spianando un boschetto con diversi vecchi, ma sani alberi d'alto fusto. Un giorno indispettito dal fatto che non ero riuscito a ferrare nemmeno uno di quei grossi e furbi cavedani con la canna da mosca, decisi di provare col pane, come esca, e con una vecchia bolognese, montando un galleggiante da 2 grammi e un finale non troppo sottile da 0,18, poiché i pesci erano da almeno un chilo e mezzo, se poi avessi preso una carpa, e avessi avuto problemi a recuperarla, poco male, avrei tagliato il filo.

 

Stavo innescando con difficoltà il fiocco di pane sull'amo, quando comparve L'uomo.

“Ha deciso di provare?”

“Sì, il pane come esca con i cavedani non l'ho mai utilizzato, sono curioso.” Posai con delicatezza la lenza in acqua, L'uomo osservava con attenzione le carpe che grufolavano fra le alte e folte alghe. Io vidi che il fiocco di pane galleggiava poco distante dal galleggiante, fui costretto a ritrarre il finale per appesantirlo senza esagerare con dei piombini. L'uomo si avvicinò.

“Aspetti, il fiocco di pane deve presentarsi più naturale, non così appallottolato. I cavedani non sono stupidi.” Dopo che mi ebbe sistemato l'esca, posai di nuovo la lenza in acqua lentamente in modo che fosse sospinta sul fondo di un corridoio sgombro di alghe, dove ogni tanto passavano i grossi cavedani con la livrea di squame rese dorate dal riverbero della luce solare. Pur reggendo la canna stando in piedi sopra il camminamento della chiusa in cemento, con la luce di quella tarda mattina vedevo chiaramente il pallido pezzo di pane che si muoveva lentamente a pochi centimetri dal fondo, e potevo così manovrare in modo che non si infilasse fra la boscaglia fitta di alghe che lo avrebbero celato alla vista dei grossi pesci che solcavano ogni tanto il fondo del lago. L'uomo appoggiato come me alla ringhiera di metallo arrugginito, seguiva anche lui l'evolversi della situazione. Non accadde gran che, così io presi dalla borsa da pesca una lattina di birra e né bevvi un sorso, cominciava a far caldo.

“Vedi, si muove...” Disse l'uomo indicando il galleggiante, che in effetti si muoveva a piccoli scatti. Poi più niente, rimase immobile sul pelo dell'acqua. Appoggia la lattina di birra e con calma presi la canna in mano, mi affacciai sulla parte della ringhiera della passerella della diga che dava nel punto in cui stava fermo il galleggiante. Con l'occhio segui il filo che affondava nell'acqua fino a scorgere il pezzetto di pane bianco che contrastava con il verde scuro delle alghe appena in tempo per accorgermi del repentino scatto in avanti di un grosso cavedano che lo inghiottiva. Diedi uno strattone calcolato alla lenza.

“Preso cazzo! L'ho ferrato.”

“Te l'avevo detto.” Aggiunse L'uomo. Il pesce fece curvare la canna, tanto che la vetta toccava il pelo dell'acqua. Allentai la presa, doveva essere bello grosso, e non volevo che si spezzasse il finale. Fortunatamente l'amo era adeguato alla sua mole, non avrebbe dovuto slamarsi facilmente.

Chiesi al compagno inaspettato di pesca se poteva prendere lui il guadino in mano per catturare il pesce, che si dibatteva con forza, tanto che il filo madre si attorcigliò con mio disappunto sulla vetta della lunga canna di sette metri, ciò non mi permise di azionare più il mulinello.

L'ormai amico di pesca prese in mano il guadino e si posizionò su un gradino emergente di una stretta scalinata che scendeva in acqua. A fatica tirai la lenza con il pesce che non voleva arrendersi verso la piccola gradinata, finché dopo interminabili minuti il compagno di pesca posiziono il guadino sotto il pelo dell'acqua, pronto ad accogliere il pesce.

“Attento a non scivolare!” Gli dissi preoccupato, data la sua mole, non indossando l'abbigliamento adeguato.

“Per un pesce non né vale la pena di farsi un bagno.”

“Non ti preoccupare, fallo stare fuori dal pelo dell'acqua, cosi si stanca.”

 

Finalmente inguadinato il pesce lo portò a riva adagiandolo sull'erba.

“Guarda che bella bestia.” Disse soddisfatto, mentre il pesce dai colori vividi boccheggiava.

“Aspetti che gli faccio una foto.”

“Gliene faccio una anch'io.” Rispose lui, traendo dalla tasca della giacca uno smartphone. Scattate le foto, agguantai il pesce con delicatezza dopo essermi bagnato le mani, scesi i gradini che declinavano verso l'acqua, e poi immersi il pesce muovendolo in senso longitudinale avanti e indietro, per facilitarne l'ossigenazione. Ci volle poco perché riprendesse vigore e guizzasse via verso il fondo.

Guardai L'uomo è gli dissi: “È come se lo avessi preso te.”

Fu così che dopo aver preso altre due birre dalla borsa da pesca, ci incamminammo verso il tavolo dove lui stava solitamente seduto. Mi accomodai di fronte a lui. Era ormai mezzodì, vidi che si era preparato il pranzo: del pollo e delle patate su un piatto di carta, il tutto sopra una specie di tovaglietta ricavata dalla pagina di un giornale.

 

 

Gli strinsi la mano: “Massimo, ma puoi chiamarmi Max.”

“Giorgio. Mi trovi qui tutti i giorni, è proprio un bel posto, peccato che l'hanno lasciato andare. Gliel'ho detto al guardiano, se lo dessero in gestione a me, creerei un posto per pescare carpe, con un ristoro e tutto il resto. Con una telefonata potrei fare arrivare delle belle carpe domani mattina. In poco tempo pulirebbero il lago dalle troppe alghe che lo stanno soffocando, qua neanche si preoccupano di portar via quelle che hanno messo su quella chiatta di legno, la vedi la.” In effetti su una zattera in mezzo al lago avevano raccolto un cumulo di alghe che stavano marcendo propagandone nell'aria il tipico olezzo.

“Sì, ti capisco, ma qui a parte a organizzare sagre, se né fregano del lago, non seminano neanche più pesci. Una volta ogni anno immettevano almeno un certo numero di lucci. Ma tu abiti qui vicino?”

“Magari, ci vengo ogni giorno con quella bicicletta.” Rispose sospirando, e indicando una vecchia e arrugginita bicicletta vicino al cancello d'ingresso del parco.

“Ho trovato da dormire in una stanza offerta dalla Caritas in centro città, e poi con 400 euro di quelle specie di pensioni che ti danno adesso, se sei disoccupato, tiro avanti. Sono in causa con la ditta per cui lavoravo. Pensa mi hanno licenziato con la motivazione che ero troppo vecchio, con i soldi che mi davano, secondo loro, potevano assumere quattro dipendenti giovani. Così aspetto di vincere la causa, e con quello che mi dovranno dare ci verso i contributi che mi mancano per andare in pensione.”

“Che lavoro facevi?”

“Il macellaio in un supermercato... ma ho fatto il driver... l'autista di camion negli Stati Uniti. Ho vissuto otto anni in California, ma ho girato tutti gli Stati Uniti.”

“Ma come ci sei finito in America?”

“Sai, noi liguri siamo viaggiatori... io in realtà sono uno chef stellato. Lavoravo per una grossa compagnia di navigazione turistica.”

Giorgio fece il nome di una compagnia di navigazione turistica che spesso si pubblicizzava in TV. Poi dopo aver preso un sorso da una bottiglietta di plastica continuò il racconto: “Ho navigato per tanti anni, prendevo 13.000 euro al mese... poi cosa vuoi, un giorno sono sbarcato a San Francisco e ho deciso di cambiare, e mi sono messo a fare il camionista. Ho cominciato ha girare in lungo e in largo l'America, li se ci sai fare fai quello che vuoi, ti mettono alla prova. Se vai bene, ok. Non scherzano mica li, non è come qua, pensa quando ero li ho deciso di prendere un auto a noleggio, non conviene comprarle, costa meno noleggiarle. La prendo e mi metto in viaggio. Mi ferma la polizia per un normale controllo, io li vedo dallo specchietto retrovisore, accosto diligentemente e mi fermo. Il poliziotto arriva a fianco alla portiera e mi fa segno di abbassare il finestrini. Io obbedisco, allungo la mano per estrarre i documenti dalla giacca... mi arriva una sventola che quasi mi rompe il naso... infatti sanguinava. Cazzo... gli dico: ma cosa ho fatto di male agente? Lui si scusa, mi dice che non aveva capito che ero italiano. Credeva che stessi prendendo un revolver. Insomma, la non è come qua. Quando ti fermano devi prendere il volante con le due mani e tenere bassa la testa, e poi fare tutto quello che ti dicono loro. Non fare movimenti avventati. Poi un giorno mi sono fermato in un albergo a Los Angeles. Entro e vado al ristorante per pranzare, vedo che è un po'... così, così. Parlo col titolare e gli dico: è tutto qui quello che sapete proporre ai clienti. Questo mi guarda torvo, e mi risponde. Tu sai fare di meglio? Io gli rispondo che sono uno chef stellato e che se mi assume gli faccio alzare il fatturato del 25%. Lui mi guarda di nuovo serio, ci pensa su un po', e risponde, va bene, corro il rischio, ti assumo per un anno. Io gli rispondo, ok, però voglio decidere tutto io... chi assumere e licenziare se non mi sta bene, e poi per il resto decido io. Così ho cominciato a lavorare in quel grande albergo, che faceva parte di una catena di hotel. Quando avevano un ristorante da tirare su, mi chiedevano se volevo andarci. Io pattuivo il compenso e una percentuale del 2 o 3%, se raggiungevo l'obbiettivo, e ho lavorato in quell'ambiente per circa dieci anni, ma mi occupavo solo della ristorazione dei clienti dell'albergo. In seguito pretendevano che aprissi il ristorante anche a clienti esterni, e io non ci sono più stato, perché si tratta di un tipo di gestione più complicata. Sai non ci sono più orari, e il personale si lamenta, non va bene.”

La storia della vita di Giorgio era davvero interessante, e subito mi chiesi perché fosse rientrato in Italia, un paese in grande declino, e dove certo non si viveva più bene.

“Come mai sei venuto a vivere qui?” Gli chiesi ovviamente.

“Perché mi sono ammalato, di un tumore molto raro. Per salvarmi la pelle mi sono dovuto operare negli Stati Uniti. Per poterlo fare ho dovuto vendere tutto quello che avevo. L'operazione mi è costata 250.000 euro. Ma come vedi sono ancora vivo.”

“E poi...”

“E poi sono rientrato in Italia, non volevo più fare la vita dell'imbarcato, conoscevo il proprietario di una catena di supermercati, e sono venuto a lavorare qui come macellaio. Prendevo solo 1500.00 euro, ma mi andava bene, facevo una vita tranquilla. E poi come ti ho detto mi hanno licenziato, e sono in causa, con loro. Ma sono sicuro di vincerla la causa. Devo solo avere un po' di pazienza.”

“Ti va un po di birra?” Gli chiesi per spezzare il lungo racconto.

“No grazie io bevo questa, acqua e whisky.” E sollevò un bottiglietta di plastica con all'interno del liquido giallognolo.”

“E già, avendo vissuto negli Stati Uniti... non potevi che bere whisky." Ci fu qualche minuto di silenzio, durante il quale Giorgio bevve dalla sua bottiglietta e io dalla mia lattina.

 

“Sai Max ho anche scritto un libro sulla mia vita. Lo scritto di getto in un quaderno. Lo ha letto un insegnante di italiano, e mi ha detto che secondo lui varrebbe la pena di pubblicarlo, è buono.”

“Credo che sia una buona idea pubblicarlo.”

 

Così quel giorno io e Giorgio parlammo di molte cose. Ritornai qualche altra volta a pescare in quel lago, l'estate era finita, non ferrai nessun altro cavedano, come se da quel giorno si fosse diffusa tra loro l'idea che era meglio lasciar perdere i fiocchi di pane. Non rividi più Giorgio. Il parco del lago senza Giorgio tornò alla sua normale frequentazione. I patiti della corsa che venivano ad abbeverarsi alla fontanella, per poi riprendere il loro percorso. Le coppie giovani e vecchie la mattina con al fianco uno o più cani, che ormai erano diventati un optional irrinunciabile, trattati come figli. Il pomeriggio sul tardi, extracomunitari di varie etnie, perlopiù pachistani, ganesi, e italiani che venivano a spacciare.


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