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Rime d’amore e di frontiera

Poesia

Carla de Falco (Biografia)
Temperino rosso

Recensione di Franca Alaimo
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Pubblicato il 02/09/2016 12:00:00

 

I testi di Rime d’amore e di frontiera si inseriscono agevolmente all’interno di quella linea poetica mediterranea caratterizzata da una chiarezza espressiva tesa al raggiungimento di un’immediata comunicabilità.

L’autrice sa benissimo di essere una voce pressoché fuori moda, “fuori fuoco, fuori onda, fuori coro/da risuonare praticamente muta”, all’interno di una produzione poetica per lo più votata ad un freddo tecnicismo e ad un cerebralismo criptico che è una delle cause della perdita di consensi che oggi affligge quest’arte fin troppo esercitata e, tuttavia, scarsamente circolante al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.

Carla intende, invece, recuperare un rapporto d’intesa con il lettore (chiamato più volte in causa a partire dal verso iniziale della prima poesia della silloge: “potrei dirti che tutto è della morte”), spostando l’attenzione della poesia verso soggetti semplici, convinta che “ci sia da fare tanto sui dettagli/ più che sulle cose che dicono importanti”, quelli che fanno parte dell’esperienza di ogni uomo, così che egli sappia finalmente riconoscersi nelle parole del poeta.

Né per questo motivo la poesia della de Falco corre il rischio di cadere nella banalità. L’autrice, infatti, sa come emblematizzare e universalizzare gli oggetti del suo teatro visivo-esperienziale, proiettandoli in una rete di echi e rimandi sonori e di suggestioni emotivo-intellettuali, attraverso cui fare vibrare le domande di una costante ricerca di senso dell’avventura esistenziale.

La mediterraneità della poesia della de Falco trova, inoltre, una seconda via d’espressione grazie all’abbondante tavolozza di colori (blu cobalto, verdi, azzurri, giallo oro) degli elementi naturali: il mare, innanzitutto, e la vegetazione tipica ( fico, cactus, peonie, mandorli, aranci, ulivi) e gli animali della campagna e dei monti e dei cieli del suo Sud. La loro presenza è così numerosa all’interno di questa silloge e così esatta la loro nominazione da farne per il lettore quasi un piccolo manuale sulla flora e la fauna del Mezzogiorno d’Italia: essi, tuttavia, contribuiscono non solo a disegnarne un ritratto vivido e pulsante di vita paesaggistica, ma si impongono quali strumenti alludenti a eventi e rivolgimenti storici del passato, così come ai mali che l’affliggono ancora.

Un testo quale Il percorso di un’origine, apparentemente descrittivo, grazie all’uso di una forte connotazione aggettivale, fra l’altro simmetrica, (ogni albero è caratterizzato da due aggettivi) di un baobab, di un cedro, di un ulivo (portati tutti in Italia dai popoli conquistatori), si arricchisce di significanze più profonde e può essere letto come un invito alla condivisione del dolore di un popolo sempre in lotta con una “idra nera/aizzata da lividi caronti” (il sistema malavitoso e la corrotta amministrazione del potere); e gli aggettivi, di cui precedentemente si parlava: magico , sapiente, regale, stanco, torto, duro, raccontano un percorso di fatica, di bellezza, di sacrificio, di luminosità ed insieme di oscurità, di vita e morte.

Così, attraverso un linguaggio che nella sua postfazione Giuseppe Vetromile definisce “morbido”, passa la forza di un impegno morale e civile, che soltanto in un testo trova parole durissime e taglienti: “lo scrittore non è veliero da bottiglia / la sua parola è acido che brucia / il suo cuore è tamburo che risveglia”. Dunque, questa è la poetica di Carla de Falco, questa la sua tempra umana, forte, sdegnata, appassionata, così come quando dichiara il suo amore al compagno di vita o all’ultima nata che le dorme addossata sopra l’incavo tiepido delle clavicole.

L’amore è, appunto, il tema principale della quarta sezione della silloge, il cui titolo Esilio personale dice qualcosa in più rispetto ai testi in sé stessi: che l’autrice considera la sua vita privata come un territorio intatto di sentimenti e di piccole felicità, quasi una sorta di separazione dal resto del mondo in cui sembra prevalere l’odio. E, tuttavia, l’amore non è un sentimento escluso dalle relazioni della de Falco con gli altri e con la realtà: il disincanto, il dolore, lo sconforto non rendono la lotta inutile. Al contrario, danno la misura di una struggente tensione verso una trasformazione dell’umanità intera, attestano uno sguardo misericordioso verso l’altro, un ardore empatico, una pietas storico-creaturale: “sono qui a cercare giustizia” immagina di dire l’autrice alla verità che la interroga.

Del resto, la de Falco si autorappresenta ripetutamente in forme risentite, dilacerate, “in bilico perenne/ sopra una vertigine”, che è, poi, la condizione esistenziale d’ogni umana creatura immersa all’interno di un’instabilità e indefinibilità del reale, di una temporalità limitata fra gli estremi della nascita e della morte, fra affermazione di sé e negazione.

Infatti, in quasi tutti i testi della raccolta è evidente la scelta di una bitonalità: zone di luce ed ombre si contrappongono costantemente, immagini positive si mescolano con altre dolorose: sole e spine, terra nera e luce; fango terrestre e volo; colori chiari e squillanti si affiancano ad altri tetri: il sangue nero del vulcano e le lenzuola bianche “stese all’aria”.

Tutto questo per raccontare la complessità della vita, il furioso mescolio di gioia e dolore, di male e bene, ma anche per confessare che la poesia è un modo di cercare equilibrio, senso, motivazione. Sebbene essa sia impotente a guarire l’uomo, l’autrice afferma: “nel dubbio scrivo”, “per vuoto, per ansia, per paura,/come chi osserva da lontano un uragano/ e vi scorge un miraggio rannicchiato”, “per dare dignità al pianto e al riso / senza cedere all’insulto dell’applauso”, per ricucire insieme i frammenti di sé stessa: “chiusa nel divano di casa / a scrivere pagine mancanti,/ mi sono un poco rammendata”.

E, tuttavia, mai l’autrice coltiva solipsismi vacui. L’ultimo testo reset, che è uno di quelli che più mi piace per il suo disordine narrativo ben concertato e per la sovrapposizione della sfera personale e pubblica sottolineata da un’interessantissima coesistenza di più registri espressivi, mostra palesemente la funzione primaria che la poesia ha per la de Falco: il recupero di una comunicazione autentica e profonda in un’epoca in cui l’accesso a certi strumenti digitali induce a credere che essa sia alla portata di tutti.

Ma la de Falco, che, come ogni poeta coltiva il desiderio di una ben più profonda qualità comunicativa, è ben consapevole dell’inganno, se scrive di “covare/l’intima taciuta convinzione/ che tutto questo mio comunicare/ sia solo un rimbombare d’erosione// silenzioso buio che gratta/ dentro la paura./frana inesorabile./ arrestare il sistema”. Già, il sistema, lo stesso che pone ai margini la poesia come espressione “deviante”, e perciò così nociva per il mantenimento di uno status utile agli amministratori di una falsa democrazia.

 


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