:: Pagina iniziale | Autenticati | Registrati | Tutti gli autori | Biografie | Ricerca | Altri siti ::  :: Chi siamo | Contatti ::
:: Poesia | Aforismi | Prosa/Narrativa | Pensieri | Articoli | Saggi | Eventi | Autori proposti | 4 mani  ::
:: Poesia della settimana | Recensioni | Interviste | Libri liberi [eBook] | I libri vagabondi [book crossing] ::  :: Commenti dei lettori ::
 

Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. (da "Il tempo ritrovato" - Marcel Proust)

Sei nella sezione Recensioni
gli ultimi 15 titoli pubblicati in questa sezione
Pagina aperta 1782 volte, esclusa la tua visita
Ultima visita il Fri Nov 22 00:58:00 UTC+0100 2024
Moderatore »
se ti autentichi puoi inserire un segnalibro in questa pagina

Minime da una fine

Poesia

Liliana Zinetti (Biografia)
Edizioni CFR

Recensione di Marco Righetti
[ biografia | pagina personale | scrivi all'autore ]


[ Raccogli tutte le recensioni scritte dall'autore in una sola pagina ]

« indietro | stampa | invia ad un amico »
# 0 commenti: Leggi | Commenta » | commenta con il testo a fronte »




Pubblicato il 10/06/2016 12:00:00

 

Con fotografie di Viviana Nicodemo

 

“Invece camminiamo/Camminiamo io e te come sonnambuli. /E gli alberi son alberi, le case/sono case, le donne /che passano son donne, e tutto è quello /che è, soltanto quel che è”, scriveva Sbarbaro in Pianissimo, una delle raccolte più alte dell’intero Novecento.

Le poesie di Liliana Zinetti potrebbero partire idealmente da quel punto di arrivo della poesia-vita, tracciarne il seguito: “Ma oltre, un là senza tempo/ogni cosa posa al posto che le compete./Il surreale volo del pesce ha un senso/e respira il mare”, scrive, e il registro impiegato è un fortissimo eseguito però in sordina, poiché le grida esplodono nel dopo-incantamento, e ”Altissime le fiamme /bruciarono gli alberi, il cielo, /ogni ipotesi di paesaggio./Sfere, comignoli, rami, carcasse.”

Dunque gli alberi sbarbariani non ci sono più.

Siamo anche oltre ‘gli alberi assassini’ citati dalla Rosselli in Documento, perché qui tutto ha nuove coordinate, e gli alberi anzi “si fanno carne e voce”. E’ iniziato il dopo di ogni luogo prima conosciuto: quando l’esistenza ha bruciato i suoi sintagmi vitali, quando le parole “non salvano, non dicono che l’assenza” e il silenzio è “il bianco tra le parole”, l’unica possibilità è apprendere il registro del mondo momento dopo momento, dalla voce diretta della poetessa. Altra possibilità di conoscenza non c’è: Minime da una fine è un luogo altro, in cui solo alla poesia è possibile tracciare strade, fare collegamenti, denunciare avvistamenti improvvisi, ipotesi di significati: “Avremo scritto perché splendano le notti / e per giorni che nascono finiti, per il nulla / dopo le parole. / Rondini ai nidi dei versi, tenteremo il ritorno / dentro un cielo bianchissimo”.

Il dopo investe anche il tempo, tant’è vero che una delle frantumazioni-ricomposizioni inizia con “Oggi, nel 13mo mese dell’anno/hanno squillato tutti gli orologi,/freccette sonore di tanti / qui e ora. Dita del tempo, unghie/ lunghe come le perdite /pontili sul mare scuro, gridi di gabbiani / a pelo d’acqua feroci.”

Otto liriche in forma di prosa e altre quindici ritmate verticalmente. Le prime, dei lunghi respiri in cerca di una forma biologicamente possibile nell’atmosfera satura che li ha generati, in attesa di un assetto esistenziale, di una partenza dopo che tutto è stato detto e fatto: “Non indietreggio non cado vado con il nulla alle spalle: pronta per le stelle”, “ogni volta ogni piccola morte che attraverso perdo pezzi, lacerti di me. Dove finiscono? Deve esserci un luogo dove vanno a finire…” Parte essenziale di questo viaggio (poiché di viaggio si tratta: “come fossi veramente un poeta e non una che non è mai partita”) e di questo avvicinamento alle cose è la smentita puntuale di ogni certezza: “Un raggio lunare nell’azzurro d’aprile un’inquietudine sottile (non vento, brandelli) abita il giorno eppure il sole è sui tetti e l’ombra è andata col suo nero”, lo scambio fra presente e futuro: “Per altri fiorirà il giardino. Chiudo la porta per l’ultima volta – non ripeterò più questo gesto – sarà un altro come l’azzurro di oggi non sarà quello di domani svaniranno le impronte – non saremo stati.”

Le seconde, dei frammenti che ossimoricamente ricostruiscono le conoscenze del dopo-morte-in-vita, per dire il dolore e quello che c’è oltre. Domande, “Ti chiederai a che è servito / aver guardato tanto, scritto poesie”, dialoghi fulminanti “-Nasco per morire dopo pochi versi, questa / la misura. La risposta esiste. Ma tu, tu /non sai porre la domanda. La tua finitudine / ti condanna. Accendi il lume e prega, la notte / è buia e le stelle una rovina…”, accostamenti balenanti come “la poesia è sangue nel bicchiere” fissano la loro violenza e valenza nella forza scarna, meravigliosamente dirompente della parola scritta.

La punteggiatura minima e l’essenzialità del dettato sono consustanziali alla nascita spiazzante delle immagini poetiche, ne accelerano il fissarsi sulla carta e negli occhi. Non solo: è una poesia questa che, recitata, aggiunge uno spessore ‘fisico’ al suono, e va a depositare i fonemi nel punto giusto dell’esistenza, cioè in quelle lacerazioni fra la mente e il cuore in cui c’è ancora spazio per germinazioni insospettabili e dove tutto è sovranamente bello, anche il tragico, perché letterariamente vero, sorgivo, non contaminato da precedenti intuizioni, esperienze, legami mnemonici fra significante e significato. Qui il percorso è sempre vergine, Minime da una fine ci consegna una poesia che a ogni lettura continua ad avvenire per la prima volta, una creazione di senso che si dà verso dopo verso: è poesia pura, come ben raramente oggi ci è dato leggere.

Rinvii consapevoli e inconsci all’alta lirica del ‘900 (non solo alla Szymborska e a De Angelis espressamente citati) scorrono in profondità, ma sono immediatamente superati dalla perentorietà del dettato lirico, humus che fermenta e matura il suo frutto amaro e lucente, imprendibile - perché vivo di una luce che è tutta della sua autrice - e nello stesso tempo irrinunciabile, per lei e per noi che la ascoltiamo. Non c’è altro modo per raggiungere i nuovi ‘fondali’ di un’esistenza mutata, il “giorno in cui tutto torna al principio, un giorno in cui tutto specchia la sua fine”. Poesie che, per virtù propria felicemente creativa, parafrasando l’Ungaretti de Il Dolore, liberano dalla morte le cose morte e sorreggono noi vivi.

Non si può poi tacere un altro dono del libro, la potente sequenza di fotografie di Viviana Nicodemo, che nel chiaroscuro di soluzioni pittoriche contaminano la pagina di ulteriori aperture; rimandi da un territorio che appartiene agli inferi della vita, e che schiude immagini da sciogliere nella pupilla dell’osservatore fino a spogliarla di tutto, sì da far spazio – il nuovo ambiente creato dallo scatto – a una interiorità che è ritratta dall’esterno e s’ingarbuglia di movimenti, liberazioni, inquadrature perentorie, tenacemente sottratte alla pietà e affidate alla forza dell’occhio meccanico che ce le impone.

 


« indietro | stampa | invia ad un amico »
# 0 commenti: Leggi | Commenta » | commenta con il testo a fronte »