Lo scenario in cui si muove la poesia di Oronzo Liuzzi è in quella negazione dell'umano, distratto e imprigionato dentro se stesso, a calpestare ostinatamente "una terra soffocata dal caos" come da subito ci avverte. Il cuore dell'uomo ("una pietra/identità perduta") spaccato da un'economia falsa, preda di speculatori (che in modo criminale "creano nuove realtà visionarie/la finzione del vivere la morte") a cui contrapporre in grazia d'unione lirica pensiero (anche di sé e del proprio corpo- nella sue riserve, nelle sue sofferenze) e storia nella concretezza e umiltà di una terra a ricordare ancora che è l'intreccio di relazioni (fatto di fango e sangue) che ci compone a costruire il mondo: qui, in questo elastico, cerca scioglimento il disagio poetico di un autore di poliedrica e vasta esperienza (oltre che per la ventina di pubblicazioni tra narrativa e poesia lo si ricorda anche per le diverse mostre personali e collettive a livello nazionale e internazionale, libri d'artista, libri oggetto, scrittura verbo-visuale e mail art). Entro una scrittura veloce, nervosa, quasi a cercare senso e a liberarsi da un tempo che divora e cancella (ma chiara comunque e a suo modo libera) l'assunto, allora, la direzione son tutte nell'inciso di uno spazio (narrazione "che incarna la poiesis del pensiero") che è creaturalità e amore dunque- soprattutto e ostinatamente cercato in queste pagine come "conoscenza dell'enigma in apparire"-in cui dissolvere ogni "lacerazione sociale". Per Liuzzi infatti sconfessare l'altro è sconfessare se stessi e solo una rimemorazione attiva della prossimità può aprire varchi in queste rovine di eliotania e poundiana memoria (facendoci tornare alla mente tra l'altro l'apertura de "Il pianto della scavatrice" di Pasolini). Semplicemente però dapprima l'opera deve partire da se stessi, da un'auscultazione congiunta di coscienza e corpo ("il mio cantico della natura" che viaggia"dimenticato dal tempo/nella voce del non veduto") capace di ricucire dispersioni e dare verità concrete sul proprio stare nel mondo e il mondo stesso. Solo questo infatti il germe che "crea e ci racconta" nel vero nonostante le distruzioni, in un discorso sulla bellezza (nella formazione che in Liuzzi viene dall' Estetica) che qui aggancia il suo sogno di resurrezione possibile contro questa logica del profitto che al contrario come detto procede per manipolazioni e cancellazioni. Recupero del respiro quindi in una storia ed un'epoca , la nostra, come l'amore stesso " minacciato / dalla morte dal limite dal patire " , stordita nel collasso di un'ipocrisia di figure " golose del potere " - in odio di destinazione - " in conflitto col pensiero di una vita in comune". E un Umanesimo forte dunque che tenta di fondere le proprie riflessioni (di giustizia, di filosofia, di coralità) entro un fare poetico che può compiersi solo nella sua irraggiungibilità, nel rincorrersi sempre della sua luce negli strappi quotidiani che va ad illuminare, nel suo essere spirito (e spingendoci ad esserlo) in quanto "luogo umano dove vive sente/e pensa" (si leggano "una forza passionale disegna" e "modifichiamo fuori e dentro"). Voce che va a sciogliere le voci, a ricomporle in unità, a interrompere quel requiem di prigionia "del crimine commesso/ dal principe del nulla" e che piuttosto come l'invisibile dell'ultimo testo relazionandosi col sensibile " nel taglio profondo della pena", va a rispondere "in visione al dialogo". Ed è proprio qui allora nell'accordo di una Storia e di un amore "che non si nega alla ragione" ma che finalmente canta le proprie ragioni la riuscita scommessa di una scrittura densa, vitale, sapientemente circolare.