La “poesia nomade” (come la chiamò Giuseppe Pontiggia) di Luigi Fontanella, dopo stagioni sperimentali, furori linguistici, ampi squarci prosodico-narrativi, sembra raggiungere una nuova misura, una nuova pacatezza. Questo raggiunto equilibrio formale recupera e riassume in sé le tematiche fondamentali della sua poesia: innanzitutto la memoria e il tempo. Quella di Fontanella è insieme poesia di lago e di fiume, dunque. Di fiume perché ha attraversato e sviscerato tutte le potenzialità della lingua. Di lago perché tematicamente ruota come un gorgo intorno a se stessa e ai suoi miti, alla sua mitologia personale. Per coniugare questi opposti – lago e fiume: ma il lago è fatto pure dal fiume di/da cui riceve le acque – mi viene di paragonare questa poesia, nel suo insieme, ai “mitemi” di cui Claude Lévi-Strauss parla a proposito delle mitologie dei popoli: mitemi, cioè nuclei tematici ripetuti che però vengono riassemblati diversamente, producendo daccapo nuove contestualizzazioni pur riproducendo se stessi. E Fontanella scrive: “Partire da una macchia / per continuare un disegno / di senso compiuto” (p. 40).
Parlando di mitemi, mi viene da dire che questa nuova raccolta di Fontanella da un lato richiama una poesia di Cesare Pavese che proprio Mito s’intitola e che “spiega” la prima parte del titolo, e la prima delle due sezioni, quella dedicata appunto all’adolescenza Scrive Pavese: “Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo, / senza pena, col morto sorriso dell'uomo / che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto / arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio / non saprà più dov'erano le spiagge d’un tempo”. Così Fontanella è l’uomo, che forse con un sorriso meno “morto” di quello di Pavese, ricorda quando era lui il giovane dio. E scrive Fontanella: “Avrai i tuoi anni / le tue disgrazie le tue diaspore / le tue speranze” (p. 29).
Se Pavese c’introduce alla prima sezione, il nome tutelate che apre la seconda, dedicata alla notte, viene fatto da Fontanella stesso con un esergo tratto da un Novalis che si ripiega verso la “sacra notte … colma di misteri”. Ma un altro passo di Novalis vorrei ricordare, posto proprio nella prima pagina degli Inni alla notte e che ci permette di intrecciare, come congiunte sono, le due sezioni del libro di Fontanella il cui titolo potrebbe anche suonare come L’adolescenza ovvero la notte. Scrive Novalis in questo libro primo nel quale giorno e notte, vita e morte, vengono poste in rapporto dialettico: “Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze dell’intera e lunga esistenza vengono in grigie vesti, come nebbie vespertine dopo il tramonto del sole” (trad. di Roberto Fertonani).
Ma ora sentiamo Fontanella, la cui poesia nomade si muove dunque innanzitutto nel tempo, andando a recuperare l’antica stagione dell’adolescenza. Nel tempo, ma anche nello spazio, per l’indissolubile rapporto tra la contiguità spaziale e la successione temporale: “C’è solo da percorrere / lo spazio. La vita trasmessa / abbraccia la distanza” (p. 30). La lontananza temporale si misura allora anche come distanza spaziale. Un po’ rovesciando l’assunto manniano all’inizio della Montagna incantata, epopea del tempo, dove un allontanamento, uno spostamento fisico nello spazio dilata il tempo: ma nomade Fontanella lo è anche nello spazio tra due continenti.
Il ritorno rammemorante al passato adolescenziale è anche individuare un punto fermo nell’eracliteo divenire. Nello stesso testo, alla fine, leggiamo: “Il tempo è in quel concentrato assoluto, / fermo e preciso, come / il tiro secco in porta” (ivi). Ma come nel mito, quel momento è destinato a ripetersi indefinitamente, almeno nel rito della memoria, una memoria intenzionale, stuzzicata, saccheggiata, più dunque come quella di cui parla Bergson, rispetto alla memoria occasionale di Proust. Il mito o l’eterno ritorno dell’identico: “In certe Domeniche lente e lunghe / io m’attardo a osservare / le gocce d’acqua ai vetri / una pioggia che si ripete all’infinito, ogni volta, / nel mio percorso a ritroso” (p. 31), per cui “Nulla è cambiato” (p. 21), “Ora / per sempre giovani” (p. 20), perché “l’adolescenza / è assoluta ed eterna. / È l’unica cosa che resta”.
Un’intenzionale e ricercato percorso, le cui tracce vanno minuziosamente individuate. Allora, ecco le domeniche, appunto, o le bande giovanili nel gioco delle alleanze, le zuffe, le prime incerte e indefinite esperienze sessuali, le partite di calcio (che, come annota Paolo Lagazzi nell’intensa prefazione, ricordano i gesti sportivi adolescenziali immortalati da Milo De Angelis), il fratello, gli affetti familiari.
Siccome il tempo è anche spazio, il poeta ci dà anche alcuni indirizzi precisi, così come i dati anagrafi – nome e cognome – degli amici d’infanzia. E nel ritorno nel grembo notturno dell’adolescenza, della memoria delle origini, Fontanella circolarmente si riannoda al cordone ombelicale della sua città, Salerno, quella Salerno che per Alfonso Gatto era una “rima d’eterno”. “Notte catabasi, / Notte, / vieni, / rovinami addosso. / Rianima il sabba / i miei oggi / i miei ieri. / Sillabe ricontate / voci contorte / sussurri / volti invocati. / Sorella Notte, / Madre Notte: / Notte mente e niente / di tutti i miei pensieri” (p. 71). Prima del dispiegarsi relativamente più ampio degli ultimi due versi, questo fontanelliano inno alla notte si snocciola con versi brevissimi, anche di una sola parola, come a tornare a un infantile essenziale linguaggio. Che addirittura, nell’ultimissimo verso, dopo aver attraversato anche “il buio assoluto” (p. 83), il poeta arriva ad affermare, pavesianamente, nietzscheanamente, “Vietato parlare. Vietato scrivere” (p. 83). Solo così, forse, nella notte, si coglie l’indicibile “anima del mondo” (ivi). Per dirla di nuovo con Pavese, con il suo Notturno: “Tu non sei che una / nube dolcissima, bianca / impigliata una notte fra i rami antichi”.
Ma Salerno, per Fontanella:
Rivedi l’Irno oggi inaridito
ridotto a un rigagnolo tra sassi e sterpi
al centro della tua vecchia città
oggi ricreata in bellezza (p. 76)
…
Che sia ora così: tutto andato
tutto triturato. Ecco Via del Carmine
che faccio ogni mattino da Fratte
a Piazza San Francesco. Che sia tutto
benedetto in questo fermo mattino
in questo fumo demente e dimentico
un istante, questo, che ci vede in fila (p. 78).