Per definire la poesia di Inés Hoffmann, prendo senz’altro a prestito la bella espressione “opera-creatura”, con la quale una delle autrici più preziose e profonde del Novecento italiano, Cristina Campo, intese caratterizzare la scrittura della Mansfield, come specchio di un’intera vita.
Gliela rubo perché nessun’altra potrebbe meglio significare il percorso biografico tracciato dai testi poetici di Inés, dove si mostrano del tutto scoperti anima, corpo, pensieri ed eventi, così da fare venire alla memoria le stazioni di una via crucis patita sulla propria pelle in tutta la sua crudeltà.
Il rosario dei dolori si sgrana attraverso la recita ossessiva delle negazioni, la reiterazione nominale di sentimenti e percezioni angosciose, la sfilza di un’aggettivazione greve, oscura (oh, quante, quante notti trascorrono cieche e gelide in queste pagine!) culminanti nella figura della bestia, la malattia della psiche, che strappa la poeta a se stessa e la consegna agli altri come una cosa devastata, “un cencio umano” osservato, manipolato, palpato, umiliato, senza attenzione alcuna alla dimensione interiore.
Da questa terribile oscurità Inés, però, si solleva verso la luce, ed è come se partorisse una nuova se stessa: è quello che comunica al lettore il titolo “Parto”, il quale, tuttavia, potrebbe pure essere letto come un verbo; né sarebbe questa interpretazione troppo inopportuna, poiché, di fatto, per ricominciare , ella deve abbandonare luoghi e tempi del suo esistere: la casa familiare, l’ospedale, i muri, “lo svolazzo d’infanzia”, “l’adolescenza stroncata”, “la giovinezza arida di affetti”. Deve partire da colei che è stata per andare incontro ad una persona rinnovata, pronta a portare alla luce “gli smeraldi” sepolti, “lo splendore” della speranza, ad attendere il ritorno “dell’uccello di fuoco” che potrà renderle la felicità. Ma la luce non splende mai assoluta: manda soltanto barbagli brevi o scintillii anche prolungati, perché resta il nodo di una tragica visione della vita, perché un’ombra larga minaccia, anche se lontana.
È per questo motivo che la poesia di Inés mostra non troppo velatamente la sua funzione terapeutica, mistica e trasfigurante, qual è anche quella di Alda Merini, che come Inés Hoffmann conobbe gli orrori dell’internamento, ma li rielaborò con una sorta di “allegria”, che alla portoghese manca.
La poesia di Inés Hoffmann ci è restituita grazie al lavoro di traduzione di Marco Scalabrino, che si tiene abbastanza fedele ai testi originali in lingua portoghese. Superfluo mi sembra fare in questa sede discorsi teorici sui compiti e gli obiettivi dei traduttori (sul tema ho letto recentemente un dettagliatissimo libro di Fabio Scotto); l’importante è che, grazie al suo impegno onesto e sensibile, al suo innato gusto per il ritmo e la sonorità della parola, Inés possa parlare anche a chi non conosce la sua lingua. E davvero ella merita di valicare i confini della sua patria, poiché esprime un mondo complesso e vibrante di sensazioni, sentimenti ed umori che giungono direttamente all’intelligenza del lettore, parlandogli di morte e vita, dannazione e salvezza, che sono i poli dentro i quali pure si muovono tutti gli umani destini.