Una modesta insegnante elementare. Una cinquantina d’anni e due grandi occhi blu a delimitare un volto aperto, ancora vivo nonostante la solitudine. Le mani poco curate, ti cambi il paltò per il pranzo ma non la camicetta con i bordi sbiaditi e anche un po’ anneriti. Con lo sguardo raccogli i cani randagi e se potessi li ospiteresti tutti nella tua piccola casa, piccola come te, che sarai alta si e no un metro e cinquanta. In realtà, però, uno solo è stato il fortunato: il piccolo yorkshire di tua sorella, per il quale sei ben più che una zia. Racconti del tuo paese senza cerimonia e alla cerimonia partecipi con semplicità, come una di casa; ma sei senza radici, senza marito e figli; senza amici e senza famiglia. Una pasionaria della padània che, imbevuta di nebbia e mattine troppo fredde, nelle ossa ha tutti i chilometri percorsi avanti e indietro per andare a lavorare, mentre negli occhi trattiene il riflesso delle soddisfazioni degli altri; mancano solo le tue.
Passeggiando dispensi continuamente saluti e nessuno risponde; anche se si sa - come dice semepre la tua amica - tu conosci proprio tutti. Hai viaggiato con il sacco a pelo e la tenda quando ancora lo facevano in pochi, utilizzando il tuo inglese perfetto (ben prima di insegnarlo a scuola) in Grecia, Jugoslavia, Austria…Ovunque, a patto che fosse in Europa.
Porti a spasso il nipotino e ci aspetti un po’ in disparte sulla piazza. Il palcoscenico della tua vita: la piazza e l’aula dove i marmocchi urlavano da troppi anni per poterli tollerare ancora. E poi, da allora, sempre pochi spettatori, perchè non ami farti notare e sposti subito l’attenzione se per caso ti trafigge. Sei abituata a pagarti tutto; dalla compagnia ai saluti, ai sorrisi, ma dici quasi sempre quello che pensi senza formalismi, e sai farti ascoltare senza alzare la voce o cadere nella banalità.
Quando non sei con il nipotino vai a spasso con la carolina, la vecchia abarth turchese “pugno - nell’occhio” che ti trasporta in giro ma mai troppo lontano, perché per quello ci sono i treni, che sono più comodi e costano meno. E così scarichi a casa la bestiola, apri il garage e tiri fuori la carolina. Non dimenticherò che pioveva e dal tetto apribile temevo filtrassero le gocce. L’ho toccato, e invece ho trovato un morbido telo insaccato che prima o poi verrà giù, sono sicura. E poi…
Ti avevamo incontrata la sera prima in un circolo dove presentavano un libro. Ci hai quasi subito invitate a pranzo per il giorno dopo, rammaricandoti di non averlo potuto fare prima. (Non ci conoscevi…?!) Ti avevamo notata, però, già al bar, quando ti stavi lamentando per lo stato dei cessi: improponibili, avevi detto. Poi sei venuta a sederti vicino a noi mentre aspettavamo, e quando hai saputo del premio forse hai pensato che stavi parlando con una vera scrittrice. Eri venuta apposta? Oppure era stato per l’argomento del libro (un’imprecazione contro la gioventù…)? In ogni caso, il giorno dopo, tutta fiera, ci hai mostrato l’articolo che parlava di noi, e sei venuta a sederti al posto degli assenti, proprio al nostro fianco.
Penso che forse l’hai sempre fatto, che hai sempre fatto così. I successi degli altri. I cani degli altri, randagi come te. La casa della tua amica col marito malato. I figli dei tuoi fratelli. Penso che di solito ti appropri di tutto, ma con discrezione e poi a casa non porti via altro che qualche superfluo trofeo a testimonianza della tua partecipazione. Nel nostro caso la mimosa, ma anche cartoline, fotografie, ceramiche, ninnoli portafortuna, centrini, vasetti… accessori costanti di chi è sempre di passaggio perché al tramonto nessuno gli chiede di restare. Com’eravamo anche noi quel giorno, colleghe d’occasione. Inutile aggiungere altro.
Era la festa della donna; d’ora in poi penserò a te ogni volta che vorrò credermi una scrittrice.
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