Difficile inscatolare questa narrazione in una definizione certa, forse quella di pensieri filosofici, oppure diario di viaggio, o epistolario di formazione, non sono certo. Certo però sono del fatto che è facile lasciarsi catturare da questo libro, ad iniziare dalla macchina narrativa costruita dall’autore: per una strana distorsione spazio temporale, due giovani uomini comunicano scrivendosi lettere che viaggiano, da uno all’altro, attraverso un divario temporale di circa duecento anni. chi ricorda un non vecchissimo film di Alejandro Agresti con la coppia Bullock Reeves intenta ad innamorarsi attraverso lettere, che “saltano” dal 2004 al 2006, capirà cosa intendo. In questo caso a scrivere le lettere sono un giovane aristocratico inglese che, per amore della pittura e delle scoperte, intraprende il cosiddetto “Grand Tour” attraverso l’Italia. L’altro protagonista è un giovane contemporaneo, meno affascinato dalle bellezze che lo circondano, viste con occhio più cinico e meno romantico, anche a causa di una certa malinconia che ne permea l’esistenza e, fatto non trascurabile, certe difficoltà economiche. I due incontrano l’un l’altro attraverso delle epistole che attraversano i confini spazio temporali e subito sviluppano una forte empatia, tanto da considerarsi ottimi amici nel giro di poche missive. Se il “pretesto” è affascinante, lo è ancor di più la direzione che l’autore dà al contenuto di quanto i due scrivono. Ed è un continuo confronto su quel che è l’Italia, vista nel Settecento e oggi, con le logiche e inevitabili differenze, ma anche, e mi sembra più interessante, con il differente modo di porsi dei due. Più romantico l’uno, più pragmatico e disincantato il nostro contemporaneo. Quel che giova alla narrazione è il lento e inesorabile fondersi delle due visioni, ciascuno impara dall’interlocutore a porsi con occhi differenti e nuovi rispetto alla realtà che lo circonda. Essenza, questa, vera e ultima del viaggiatore, per riecheggiare un noto aforisma proustiano. Ma l’equilibrio non è perfetto e mi sembra che alla fine l’italiano ceda alla visione romantica dell’inglese. Così, dopo qualche pagina di schermaglie fra i due, sul senso della vita e dell’amore, verso la seconda metà del libro vediamo il nostro contemporaneo abbracciare la visione del britannico e ricominciare a vedere con occhi d’amante le bellezze che lo circondano. Come se duecento anni di esistenze avessero depositato una patina grigiastra e triste sull’ambiente. E in parte ciò è vero, basti pensare alla speculazione edilizia, alla deforestazione e a tutti i vari crimini contro le bellezze storiche e ambientali commessi in nome del “progresso”. Quel che ne risulta è una bella lezione, per tutti noi contemporanei, ad avvicinarsi o, meglio, ritornare a una dimensione più umana del viaggio, la lentezza e la curiosità capaci di farci ritrovare la bellezza nell’Italia di oggi e che rispetto a quella di duecento anni prima sembra scomparsa: invece esiste ancora, basta saperla trovare, e un occhio più “romantico” sarà capace di scoprire anche una certa armonia, o addirittura grazia, in quei fabbricati che spesso costellano i nostri paesaggi, e che, a tutta prima, ci paiono come dei veri e propri oltraggi al paesaggio.
La narrazione sembra faticare un po’ all’avvio, il marchingegno narrativo ha bisogno di tempo per funzionare alla perfezione, in alcuni tratti le situazioni sembrano leggermente sfaldarsi facendo calare la tensione narrativa, tuttavia, col procedere il libro trova un forte e fresco impulso che, con il misterioso e inatteso finale, lascia al lettore che giunge in fondo, a pagina 159, la piacevole sensazione di avere appena concluso una bella lettura.
(Claude glass. Si trattava di uno specchietto tascabile, convesso e colorato, che uomini e donne portavano con sé nei loro viaggi e utilizzavano quando volevano amplificare la bellezza naturale di una determinata scena.)