Il miracolo e la bellezza dell'espressione artistica è sottesa anche in quella grazia di gemme che del campo sanno l'attesa e la semina, il tempo di sua esatta compiutezza nello spuntare ad eco del giardino. Maturazione, dunque, ogni volta propria nella rimessa delle direzioni e dei mondi e senza tema di profluvi, anche, la parola, il gesto finalmente nella luce per il dovuto abbraccio. Quell'abbraccio, verrebbe da sottolineare a più riprese, che viene soprattutto per fatica e carico d'amore, di vita ecco che reclama le proprie ragioni e i propri slanci insieme alle proprie dissonanze. Vita per questo ancora più aperta- al suo limite vera- negli anni tardi della vecchiaia il cui canto sovente non comprendiamo, o per meglio dire, non scorgiamo negli inceppamenti di un orizzonte in cui forse non crediamo appieno. Eppure, è questa l'età a cui nel ritorno la vita stessa, per custodia, si raccoglie nella sua definitiva creazione e che in poesia sovente ha dato in diversi autori i suoi esiti migliori (Yeats probabilmente su tutti fino, per restare a noi, a certe cose di Saba, Ungaretti). Fra questi il fiorentino Giovanni Stefano Savino per cui davvero la parola caso non è un abuso. Classe 1920, ex impiegato delle poste e soldato durante l'ultima guerra, insegnante poi dalle elementari alle superiori di italiano e storia fino al 1979, scopre in sé solo dopo i settanta (più precisamente nel 1994) quel deposito in versi che più non lo avrebbe abbandonato in esercizio- ed offerta- esemplare di scrittura. Il merito della cura e della scoperta, giacché come in ogni piccolo miracolo l'incastro è nell'incontro, è nella sapienza autoriale ed editoriale di Mariella Bettarini e Gabriella Maleti, sue concittadine (per nascita o per adozione) ma soprattutto da decenni alla guida di quella pratica di vita e poesia tra le più illuminate, per palestra e per scardinamento d'impronta, che porta il nome di Gazebo libri. Così ecco - nella puntuale dicitura di Anni solari (a comprendere in successione la cadenza periodica dei testi)- l'ultimo suo lavoro, il decimo, raccolto tra le primavere del 2013 e del 2014. Dalla collina di Fiesole, dove ormai da diverso tempo risiede lasciato il centro storico, il suo sguardo abbracciando la conca a valle disteso sulla Cupola del Brunelleschi si fa rovescio ed accordo di rive tra i lungarno della memoria e del cuore e i lampioni di un presente il cui segno è tutto nella grafia incerta e sofferta di una parola a cui ancorare nel dialogo scioglimenti e bagliori di una storia non finita. Così oltre a caso e miracolo è proprio la parola lavoro a rendere adeguatamente conto del compito di registrazione anche minima di quegli elementi i cui eventi reclamano vita principalmente, quando non unicamente, negli spazi interiori di volti, voci, mura che si riaffacciano. D'altronde è il timbro stesso del titolo a richiamarlo: i gomiti sul tavolo- la testa tra le mani- ogni giorno, ogni giorno avanzando (o retrocedendo a seconda dei richiami) di un passo, di una parola nel cerchio di una scrittura che si dona tutta nella veglia e nel sudore che venendo dal sonno al mattino lo sospinge al suo verso. In questo soldato, miles sempre nella misura di un passo che tra le stanze e il mondo di fuori coi suoi uccelli e le sue luci del tempo solo, immanentemente unico dell'uomo ne fa l'umile guardiano di se stesso fra rimbalzi di antiche gioventù di Santa Croce o Via da Verrazzano, di marito e di padre, in un autoritratto che viene"dalla sassosa riva dell'Arno e da un pane raffermo" e in un essere solo, ora, per "nascita non scelta". Pur uomo ("colonnato definito in tutte le sue parti") l'immagine, allora, è ancora quella del sé bambino a fermare per sé solo sulla carta "l'altalena dei giorni e della corda" nella bellissima analogia del ritorno senza scarpe a casa tra le spigolosità dei sassi e il come se ne andrà lasciando le scarpe sotto al letto ("a metà strada il volto di mia madre"). Respiro in polifonie d'età a levare del vivere l'intera fatica che in definitiva però nulla poi si trova a chiedere se non, nel sole, l'essere ogni volta parte di un giorno che per Savino, in Savino- caparbiamente- non può che compiersi in ascolto e trasfigurazione d'ombre. Trasfigurazione che viene, come ci sembra indica anche lo stesso Giuseppe Panella nella illuminante introduzione, per la necessità "di capire affidata a una rievocazione del passato che permetta di trovare ancora il segno di ciò che è stato", giacché in quest'autore "scrivere equivale a vivere e vivere serve a continuare a vivere senza disperare" in una scrittura che è racconto "di poesia come sorta di verifica sul campo"- in un' esistenza che appunto ha nell'Arno figura dello scorrere e dello svanire. Trattenimento, a perdere e ricominciare del tempo nella consapevolezza delle evanescenze (in fondo come tutta la vita stessa-"passerà, passerò") che nella partitura che non cambia nel morso ossessivo degli endecasillabi ne fa esempio tenace di uomo e cronista insieme che su ignota soglia si ferma in attesa (parafrasandone un verso), a mutare il silenzio in parole "come fiori, per i campi". Disposizione di parola fattasi bastare nella stretta della propria umana e perciò caduca sorte che in un'epoca insanamente inquieta come la nostra ci appare come una delle ultime vere e perciò più care lezioni "all'attracco sulle rive del nulla". Senza dilungarci, allora, ma rimandando all'avventura di una lettura che di cuore raccomandiamo (corredata nella parte finale da numerose testimonianze critiche e d'affetto) ci piace in conclusione lasciarlo come lui stesso invita a fare, a pensarlo (nella stessa intensità della fotografia della Maleti che lo testimonia): al mattino con la testa fra le mani, all'alba, "coi gomiti sul tavolo in cucina" pronto a ripetere la vita- il suo teatrino abbassata la tela, tutti andati via. Il verso, "intatto fiore nel suo gambo verde", custodito come una volta il pane da portare poi alla madre- a tutte le madri.