Parlando di Proust
L’Alfa procedeva lenta, nel traffico dell’ora di punta, ma i due occupanti non sembravano avvedersene. Il guidatore manovrava con la perizia automatica dell’esperienza, ignaro di ogni suo minimo intervento sugli strumenti. Questi gli obbedivano con la precisione propria del loro essere non-pensanti, e perciò incapaci di interferire in un comportamento guidato da una volontà dinamica.
La ragazza girava nervosamente le pagine del libro che teneva appoggiato sulle gambe.
“Ma come fai a leggerlo?”, chiese lui sorridendo. Sorrise anche lei.
“In effetti è vero che bisogna essere un po’ proustiani per amarlo. E non è che lo si diventi leggendolo, bisogna già esserlo per legge genetica...”
“Dovresti sorridere più spesso. Mi piace portare con me il ricordo di un tuo sorriso.”
Lei voltò il viso verso di lui e stette a guardarlo per un lungo momento.
Lui staccò la destra dal volante e l’appoggiò sulla mano che lei teneva abbandonata in grembo. A la recherche du temps perdu si trovò ad essere, come in una pratica magica, oggetto medianico di garanzia e testimone di due promesse non formulate.
“Perché ti sei innamorata di me? Perché proprio di me?”
“Proust dice che di tutto quanto l’amore esige per nascere, ciò a cui tiene di più è immaginare che l’altro partecipi di una vita sconosciuta in cui il suo amore potrebbe farci entrare...”
“Non parlarmi così. E’ troppo complicato per me.”
Lei non continuò, e non gli disse che quella vita sconosciuta a cui lui partecipava e di cui fin dall’inizio aveva desiderato di poter far parte lei stessa, era la familiarità con il mondo editoriale, con quell’universo di libri - oggetti fatti di simboli dal potere misterioso di ri-creare, e perfino di correggere ciò che il buon Dio ha creato.
(testo introduttivo alla mia raccolta di racconti Il Primo Giorno (L'Autore Libri, Firenze 1999)
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